«A che età si diventa vecchie?», mi ha chiesto la mia nipotina seienne, mentre andavamo a prendere un gelato. «Un minuto prima di morire», le ho risposto. «E quando si muore?», ha detto lei, preoccupata. «Questo nessuno lo sa». Lei si è placata e io ho continuato a interrogarmi.
Una volta si diventava vecchie a 50 anni. Adesso, a 50 anni, ti danno della ragazza.
Sono tutti percorsi soggettivi, non definitivi, sono livree adattabili. Non c’è più niente di inamovibile, di questi tempi, da scolpire nella pietra. Niente.
Le età della vita scivolano: si mettono al mondo altri esseri umani sempre più tardi, si lascia il mondo sempre più tardi, ci si ammala più tardi, si muore più tardi. Si diventa dipendenti più tardi (per le invalidanti patologie della vecchiaia), ma si diventa anche indipendenti più tardi, per le invalidanti politiche della precarietà.
Se ad ogni età corrisponde un costume di scena, io, Lidia Ravera, nel pieno del mio Terzo Tempo, mi chiedo: qual è il mio?
I miei armadi rigurgitano jeans e gonnelline acquistati 40 anni fa. Non ho cambiato taglia. Non ho cambiato stile. Non ho cambiato obbiettivi. Non ho cambiato idea né idee. Non ho cambiato gusti. Questo fa di me una macchietta? Questa continuità è una forma di demenza, di nostalgia, di pietosa smemoratezza? Faccio quello che ho sempre fatto: scrivo, leggo, scrivo. Guardo, osservo, metto in relazione dati. E scrivo. Nelle prime ore del giorno corro, o nuoto, o pedalo. E poi di nuovo scrivo, leggo, scrivo. Corro, pedalo e scrivo. Per quello che scrivo vengo pagata, meno di 30 anni fa, 20 anni fa, 10 anni fa… Ma questo è l’unico segnale di regressione. Per consolarmi penso che la riduzione del mio valore in tàlleri è determinata dal mercato.
E nel mercato del libro oggetto, di questi tempi, è sempre buono l’ultimo arrivato, la novità “wow”, l’esordio “smash”, “boom”, “smart”, il “best”, il “top”.
Ma non importa, a me non fa paura essere vecchia.
Le età, per quanto propense ad esondare una nell’altra, corrispondono alle tappe di un viaggio affascinante: raggiungi una meta. Ti guardi attorno. Passi in rassegna bellezza e brutture. Impari i dialetti locali. Partecipi dei nuovi rituali. E quando sei ben installata, naturalizzata, amalgamata ti tocca ripartire. Il tempo ti spinge avanti.
Ma tu sei sempre tu. Hai soltanto un bagaglio più pesante, perché ogni tappa aggiunge qualcosa. E tocca farsene carico. Conoscenze, consapevolezze, svelamenti. Si diventa più ricche di materiale, quando si diventa vecchie. Ma se veramente si è scrittrici per necessità primaria, e non scriventi per mestiere, è d’obbligo saper essere vecchie da subito, anche quando si è giovani o molto giovani. Bisogna fingere di aver vissuto. Immaginarsi quello che sarà, come se fosse stato. Inventare ciò che non si sa (del resto a questo serve la scrittura: a scoprire quello che non sai, non a raccontare quello che sai). Così come, quando si è vecchie e si rischia di sapere troppo, occorre imparare a essere giovani, e darci giù con la meraviglia, lo stupore, la curiosità. Occorre essere eternamente principianti. E precocemente ottuagenarie. Per scrivere romanzi.
Io ne ho scritti tanti di romanzi.
Mentre scrivo la mia età, che ho sempre considerato un peso, un costume di scena sempre troppo stretto, imposto da un’occulta regia conformista, dimentico la mia età del momento (ho incominciato ad abbozzare romanzi a 15 anni, ho pubblicato il primo a 25, quello che sto scrivendo è il trentesimo), il tempo mi scivola via di dosso, entro nella atemporalità beata dei dormienti.
Eppure le mie protagoniste hanno sempre un’età ben precisa: certe volte coincide con la mia, certe volte è più giovane (la sedicenne Antonia di Porci con le ali), certe volte molto più vecchia (la protagonista sessantaquattrenne di Un lungo inverno fiorito, partorita quando non avevo ancora 40 anni, o la Iris del romanzo Piangi pure, settantanovenne splendida, partorita da me quando avevo 60 anni). Ma il dato unificante è un altro: le mie protagoniste si sentono sempre sul punto di essere sfrattate dalla loro casa-età verso nuovi pericolosi domicili coatti. Cioè: sono, tutte, in modi diversi, in lotta contro il tempo. Tutte. Come me. Come voi, che leggete questa pagina.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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