È vero: l’Italia non è propriamente una “Repubblica Digitale”. Gli ultimi dati dell’Indice Desi – quelli con cui la Commissione Ue misura il grado di salute digitale dei vari Paesi dell’Unione – sono spietati: siamo quartultimi. Al 25° posto su 28 Paesi.
Potremmo fermarci qui. Anche perché la situazione sembra essere peggiorata nel corso degli anni. Indubbiamente il gap sulle reti ultraveloci c’è e ha bisogno di essere colmato. Sullo sviluppo della banda ultralarga serve un colpo d’acceleratore. Su skill e competenze digitali siamo profondamente indietro.
E invece, in fondo al tunnel, c’è un po’ di luce. Non è vero che non si è fatto nulla per accelerare la digitalizzazione o che siamo “irrimediabilmente” in ritardo. Queste due definizioni non rappresentano la realtà. Oggi infatti siamo condizionati da un dato generale che, in realtà, è un mix di tante cose. Letto così potrebbe darci l’impressione di essere sull’orlo del fallimento, ma se si guarda al capitolo della connettività si scopre che l’Italia è al 17° posto. Se poi si considera la “Copertura della banda larga veloce (NGA)”, facciamo – secondo i dati 2019 – meglio della media Ue: 89% di famiglie coperte contro l’86%. Ci collochiamo così al 14° posto.
Banda larga ultraveloce, ultralarga o solo larga?
Il problema di connettività c’è, è vero. Ma solo quando si comincia a parlare di banda larga ultraveloce. Ovvero di tutte quelle coperture capaci di garantire velocità superiori ai 100 Megabit al secondo in download, rispetto ai 30 Mbps della banda ultralarga o ai 2 Mbps della “banda larga”. Solo il 30% degli italiani sono coperti da una rete che viaggia ad una tale velocità. La media Ue invece è del 44%. È questo il vero nodo della questione. Perché è sulle connessioni di migliore qualità che si gioca il futuro digitale di un Paese.
Qualcosa si sta muovendo
Qualcosa però negli ultimi cinque anni ha continuato a muoversi. Se a settembre 2015 quasi il 94% degli accessi alla rete fissa era in rame, a fine 2019 questi erano scesi sotto il 50%. Contemporaneamente è cresciuto l’accesso mediante tecnologie di qualità migliore. In particolare, in Fttc (misto fibra-rame) e Ftth (fibra fino a casa) si è passati dal 5,8% al 43,7% degli accessi complessivi.
Resta lo scoglio della diffusione nella famiglie. Sempre secondo i dati del 2019, ad avere abbonamenti ad almeno 100 Mbps erano solo il 13% di esse contro il 26% della media Ue. Inoltre, solo il 61% – contro il 78% della media Ue – possedevano abbonamenti a “banda larga”.
Gli obiettivi europei per la connettività. E l’Italia?
La Commissione Ue intanto i suoi obiettivi li ha posti da tempo. Già nel 2016 ne aveva annunciati, come traguardo per il 2025, almeno tre: connettività di almeno 1 Gbps per scuole, biblioteche e uffici pubblici; di almeno 100 Mbps, aumentabile a Gigabit, per tutte le famiglie europee; copertura 5G ininterrotta su tutte le aree urbane e le principali vie di trasporto.
Per avere tutta l’Italia cablata In Italia occorrerà attendere il 2023. Solo allora Open Fiber – operatore all’ingrosso nel mercato italiano di infrastrutture di rete – avrà completato il rollout, lo “srotolamento” della rete (Ftth a 1 Giga) nelle “aree bianche”, cioè quelle che non presentano alcuna previsione di investimento privato per banda ultralarga nei prossimi tre anni.
E proprio di tre anni siamo in ritardo rispetto al target iniziale del 2020. C’è da dire che anche il Piano, causa ricorsi, è iniziato in ritardo. Oggi Open Fiber può rivendicare 9 milioni di unità immobiliari cablate. Sei milioni di queste si trovano nelle cosiddette “aree nere”, ovvero lì dove nei prossimi tre anni è prevista la presenza di almeno due reti a banda ultralarga di operatori diversi. Le circa 3 milioni rimanente sono nelle “aree bianche” con 850 Comuni in commercializzazione. Il piano prevede di fare il grande salto a 21 milioni di case con fibra entro il 2023.
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