«È un trentennale un po’ ipocrita perché siamo ancora alla ricerca di verità e giustizia per le stragi e gli omicidi eccellenti che abbiamo avuto. Mettiamo l’immagine di Falcone e Borsellino sulla moneta da due euro, ma stiamo vivendo un’epoca in cui la lotta per la giustizia non sembra una priorità. Anzi: dove la riforma della giustizia rischia di smantellare quello che i due magistrati avevano voluto fortemente. Trent’anni dopo ci chiediamo ancora chi abbia imbottito di esplosivo la 126 che poi venne portata in via D’Amelio. Eppure un collaboratore di giustizia disse che si trattava di un uomo che non apparteneva a Cosa Nostra. I familiari delle vittime di mafia si trovano ancora con quella sete di verità e giustizia che non hanno avuto, anche quando sono stati assicurati alla giustizia tanti soggetti mafiosi, ma sono rimaste le lacune sui mandanti degli omicidi eccellenti.”
Luana Ilardo è figlia di Luigi Ilardo. L’uomo ucciso sotto casa il 10 maggio del 1996, dopo che per quasi tre anni aveva collaborato con i Carabinieri da infiltrato nell’organizzazione mafiosa che voleva lasciare per sempre. Commenta così le commemorazioni per i trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio.
“Ho avuto una verità parziale anche per il caso di mio padre”, racconta Ilardo. “Perché restano interrogativi aperti, responsabilità non accertate, sentenze che hanno dimostrato che gestire male un collaboratore di giustizia, un infiltrato, senza dargli adeguata protezione, non è da considerarsi reato. Ancora oggi lotto affinché mio padre abbia giustizia, anche se quello status di collaboratore, che gli sarebbe stato garantito quattro giorni dopo, se non lo avessero ammazzato, non potrà essergli dato post mortem.”
Nel novembre scorso sei stata ascoltata in Commissione parlamentare antimafia: qual è la speranza dopo quella audizione?
Purtroppo i procedimenti che riguardavano la figura di Luigi Ilardo sono frammentati e questo ha fatto sì che tante persone risultassero impunite. Eppure mio padre, con la sua collaborazione, ha garantito quasi cinquanta arresti alla giustizia, fra i quali sette capi provincia di Cosa Nostra. Io sono stata ascoltata in Commissione parlamentare e devo ringraziare il presidente, il senatore Morra, che me ne ha dato la possibilità. Ho cercato di spiegare le varie motivazioni per le quali si è arrivati all’omicidio di mio padre. Mi aspetto che avendo messo insieme tutti gli elementi legati tra loro – anche se non doveva spettare a me farlo – si arrivi all’apertura di una commissione di inchiesta riguardo ai veri mandanti. Ho fatto un lavoro di ricerca basato sugli audio dei collaboratori di giustizia, incrociando i dati emersi dai processi. L’ho fatto per l’amore nei confronti di mio padre e per il grande desiderio di giustizia che ho.
Il fatto che tuo padre non abbia fatto in tempo ad essere riconosciuto ufficialmente come collaboratore di giustizia cosa ha portato a te e alla tua famiglia?
Ancora oggi ci sono persone che si permettono di appellarmi come la figlia del mafioso, nonostante io mi occupi di antimafia, vada nelle scuole e organizzi conferenze per parlare di legalità. Questa è una cosa insopportabile perché mancavano quattro giorni dall’entrata nel programma di protezione. E fa male, per quanto si possano avere le spalle larghe. Non so quante persone provenienti da una situazione ambigua come la mia si siano poi spese per testimoniare contro la mafia come faccio io. Quanti parlino dell’importanza di denunciare, di non piegarsi, di trovare un’ alternativa alle organizzazioni criminali. La strada verso la legalità l’aveva tracciata mio padre con la scelta di prendere le distanze dalla mafia e aiutare lo Stato, io ho deciso di portarla avanti. Lui merita questo riconoscimento come merita di riposare in pace. Noi familiari meritiamo la verità, come tanti altri che, pure con storie diverse, non hanno ancora avuto giustizia. Tanti sono stati i parenti che hanno portato alla luce elementi importanti in casi che presentavano zone d’ombra, ma purtroppo non hanno avuto risultati.
Cosa significa oggi parlare di memoria?
A noi preme la memoria, è giusto che si faccia ma deve essere uno stimolo affinché certe cose non accadano più, e facendo in modo che chi fa del bene non sia screditato, isolato, denigrato. Le cose che non vengono cambiate oggi saranno il prezzo che pagheranno domani i nostri figli, l’eredità che gli stiamo lasciando. Noi abbiamo avuto vicinanza e solidarietà anche da tante persone che fortunatamente non hanno mai subito la mafia, ma sono sempre troppo poche. Da familiare di vittima di mafia io ho una motivazione reale che mi fa arrabbiare e combattere, altri lo fanno per onestà intellettuale, per lasciare una repubblica fondata sulla verità e la giustizia.
La maggior parte di questi delitti nascondono le ombre di soggetti falsamente istituzionali. Lo ha insegnato la storia di Aldo Moro. Anche Giuseppe Fava in tempi non sospetti raccontava di collusioni fra soggetti mafiosi e personalità della politica. Oggi la mafia ha cambiato pelle, non fa più saltare le persone per aria, però si sa che è annidata nel tessuto imprenditoriale e sociale. Sappiamo che la legge Rognoni – La Torre è stata voluta da Falcone e Borsellino come deterrente. Oggi rischiamo che anziché rafforzare l’iter giudiziario i reati vadano ingiudicati.
La tua testimonianza è stata racconta da Anna Vinci nel libro “Luigi Ilardo, omicidio di Stato”
Il libro era un sogno maturato dalla rabbia e dalla sofferenza. Ho sempre giurato, sin da quella sera, che avrei fatto tutto il possibile per fare emergere la storia di quanto era realmente accaduto. Così ho raccontato quello che purtroppo le carte dei processi estromettevano di Luigi Ilardo. Quello che i miei occhi avevano visto da quando ero nata fino alla disgrazia, con la speranza che questa mia vita potesse essere da esempio a chi si trova nella mia condizione, soprattutto nella parte più estrema d’Italia. Scegliendo di raccontare la verità, si ha una possibilità di vita, per quanto difficile sia, perché ti metti contro la mafia e i poteri forti. Ma il coraggio va trovato. La mia sofferenza è diventata un atto di ribellione, contro il dolore per quello che ho subito, contro il pregiudizio, per il fatto che nessuno sia mai venuto a chiederci scusa, si sia mai posto il problema di noi figli, e abbia tradito mio padre anche per questo.
Quanto tempo dopo l’omicidio hai cominciato a cercare la verità?
Ho cominciato dopo la conclusione del processo di mio padre che mi dava una base di partenza. Ma il procedimento per il suo omicidio è cominciato 11 anni dopo, nonostante un commissario della DIA avesse raccolto, pochi mesi dopo, delle dichiarazioni di un confidente che parlavano dell’uccisione di Ilardo. Quella relazione è “scomparsa” per 11 anni.
Il 2 maggio di quell’anno mio padre aveva avuto un incontro con l’élite della magistratura antimafia a Roma. E poi, come se nulla fosse, fu rimandato a casa da solo, senza una scorta, una protezione. Pochi giorni dopo sarebbe dovuto entrare nel piano dei collaboratori di giustizia.
Per questo errore non ha pagato nessuno. Sono cose che non si possono dimenticare. Ancora oggi, dopo 27 anni, a noi familiari basta un odore, una canzone, una foto, una frazione di secondo per ricordare tutto. E anche le generazioni future di chi subisce un lutto così violento sono intaccate. Spesso mi accade con mia figlia, devo trovare le parole giuste per raccontare e comunque ribadire che la scelta deve essere comunque quella di stare dalla parte dello Stato.
(Nella foto di copertina: Luana Ilardo con Anna Vinci, autrice del libro “Luigi Ilardo. Omicidio di Stato”)
© Riproduzione riservata