Sono tutti ossessionati e affascinati da ChatGPT. Quella specie di intelligenza artificiale che dovrebbe soppiantare l’intelligenza umana, la nostra, la nostra intelligenza, quella poetica, fallibile, faticosa, esaltante ginnastica che va sotto il titolo di esercizio del Pensiero.
Ti dicono, con gli occhi che brillano: clicchi qua e zap zap zap… ChatGPT ti compone una poesia, ti svolge il tema in classe, ti costruisce un soggetto per il cinema, ti mette insieme una lettera d’amore, di licenziamento, di minaccia, ti formalizza un curriculum.
Ti risolve un problema di algebra. Ti spiega la teoria della relatività. Ti scrive il discorso per il matrimonio di tua figlia e quello per il funerale di tuo zio.
Ti dicono: “Ti fa da segretario, da caposervizio, da competitor se vuoi giocare a scacchi, a burraco, a bridge, a poker”. Ti racconta le barzellette e ti spiega il pensiero di Benedetto Croce, ti canta una vecchia canzone e ti compone un valzer di Strauss. Sul serio, lo sa fare: basta che tu gli dica “fammelo come Strauss”.
Ti dicono: “Se lo conosci, se impari a usarlo non avrai più bisogno di nessuno. Non dovrai più neppure imparare una lingua straniera, ChatGPT ti traduce, ti interpreta, ti avvolge di frasi idiomatiche”.
Ti dicono: “La vita cambierà vedrai, cambierà il mercato del lavoro. I doppiatori del cinema? Tutti licenziati: le voci dei più grandi attori, anche morti, saranno campionate e riprodotte, adattate ai dialoghi e tutto sarà più bello più di qualità e a un costo inferiore”.
Sono maschi, naturalmente, quelli che cantano le lodi di un mondo dominato da dispositivi elettronici più ancora di quanto lo sia adesso.
La scomparsa di migliaia di posti di lavoro non pare preoccuparli granché, basta che sia salvo il loro.
Continuano beati a elencare le future vittime del Nuovo Mondo.
“Operai? Ne basterà uno su dieci, e gli altri nove? Tutti a casa. Agenzie di viaggi: già adesso stentano perché, ormai, chiunque trova il B&B in rete, fa i biglietti, guarda le cartoline, visita il museo, tutto in rete. Tanto varrebbe neanche partire. Sai che risparmio!”.
Inutile far notare al maschio soddisfatto che le poesie composte da ChatGPT sono brutte, inerti, che un possibile romanzo fabbricato da ChatGPT non potrebbe che essere un incrocio di intollerabili stereotipi.
Svolte prevedibili, incroci di banalità, dialoghi precotti.
Lavora, ChatGPT, con il materiale che è già stato prodotto, metabolizzato e più volte rielaborato nei secoli, è una pappa senz’anima, mai originale, mai sorprendente. Tutto inutile, ogni argomentazione si infrange contro il muro di un sollievo da ultimi della classe. È il sogno della pigrizia realizzata. Il retropensiero è “mi compro un robot che pensi al posto mio. Così posso dormire”. Un elettrizzante anticipo del sonno eterno, che piace tanto agli uomini della mia età.
E noi donne, io e voi, noi donne nate e cresciute nel secolo scorso, ma invecchiate in questo nuovo millennio, come ci sentiamo, come ci poniamo di fronte alle sempre nuove conquiste dell’alta tecnologia?
Io intimidita.
Uso l’iPad da venti e più anni, da trentacinque almeno ho mollato la mia Lettera 22 e il suo quieto ticchettare.
Uso lo smartphone come tutti, ma non ci casco dentro, se devo sapere che giornata ho davanti, la mattina, apro la finestra della mia camera da letto, non l’app 3B meteo. Anche se poi sì, la consulto l’app, giusto per sapere a che ora dovrò prendere l’ombrello.
I giornali li leggo cartacei o non li leggo.
Non so fare un bonifico né prenotarmi un ristorante, ma soltanto perché c’è chi lo fa al posto mio (marito), e mantengo, anche io, le mie piccole pigrizie. Non uso nemmeno un decimo delle potenzialità dei device di cui mi servo. Uso Spotify per ascoltare musica e un allenatore vocale per saper quanti chilometri corro e quanto ci metto. Ho un buon rapporto con Alexa, alla quale chiedo di sintonizzarsi su Rai Radio 3 o sui Rolling Stones, dipende dall’umore. Ma è davvero più sopportabile la vita, se hai sempre un po’ di musica addosso.
Godo delle nuove possibilità, delle facilitazioni. Pensate: avere un telefono in tasca e muoverti liberamente invece di dover restare a casa finché non arriva quella telefonata. Ma vi rendete conto, voi nati dopo, quanto era più faticosa la vita di prima?
Non rimpiango niente, sia chiaro, non rimpiango i fax né la carta carbone. Non rimpiango certo il duplex, ve lo ricordate il duplex? Quando, per pagare meno, il tuo telefono, oltre che essere un apparecchio appeso in cucina era in co-proprietà con un altro sconosciuto utente e, se era un chiacchierone, non potevi chiamare né ricevere per ore.
Non glasso di zucchero il passato, ma non voglio prendere per oro colato tutto quello che si attacca ad una presa, non voglio immaginare un futuro in cui gli umani vivano nell’indigenza circondati da macchine parlanti che non sanno dare una carezza.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
© Riproduzione riservata