Una neuroscienziata dell’UCLA, Maryanne Wolf, ha elaborato un concetto appropriato per i nostri tempi: perdita della pazienza cognitiva. Si tratta della riduzione – se non dell’abolizione – della capacità di esaminare accuratamente le questioni, i temi, in un impegno autentico di comprensione e diagnosi. La riduzione della capacità di astenersi dal giudizio in assenza dei necessari elementi, del necessario approfondimento. Scompare la pazienza cognitiva nel comportamento di chi cerca di acquisire informazioni nel modo più veloce e meno faticoso possibile. Ciò naturalmente è propiziato dalla disponibilità, soprattutto attraverso internet e i social media, di un’enorme mole di dati su ogni argomento. Questo genera l’illusoria convinzione di poter sapere tutto senza studio, senza sacrificio, senza la fatica necessaria per imparare davvero. L’accesso a un grande quantitativo di fonti, combinato con l’incapacità di esaminarle criticamente, produce una conoscenza apparente e insidiosa. Nella migliore delle ipotesi ci limitiamo alla superficie delle questioni, senza approfondirle, senza comprenderle, senza essere in grado di elaborarle e farle diventare sapere critico. Trasformiamo la possibilità di arrivare a qualsiasi informazione con la persuasione infondata di poter interloquire su tutto. Da questo nasce il pericoloso rifiuto – quasi il disprezzo – per le (vere) competenze e per i (veri) saperi.
A ciò si aggiunga che la ricerca accelerata, nevrotica, ossessiva di atomi di conoscenza sconnessi tra loro è dominata dalla fretta, altra perniciosa categoria della modernità. L’accelerazione fine a se stessa non consente il controllo degli eventi, delle dichiarazioni, della formulazione delle opinioni. Dipende (anche) dall’ansia – un’ansia generale, strutturale – e nelle azioni che genera non vi è precisione, non vi è reale intenzione. La fretta impedisce l’approfondimento, ostacola la comprensione e produce, nel migliore dei casi, delle mezze verità; nel peggiore e più frequente dei casi, un totale fraintendimento delle idee e dei fenomeni.
Particolarmente efficace, e per certi aspetti tragica, la definizione di social media elaborata dallo scrittore francese Jerome Ferrari: “Dove cercano tutti disperatamente di esistere, e invece, con l’esibizione delle loro opinioni, commenti, fotografie non costruiscono che un tempio vuoto dedicato a un fantasma”. Le piattaforme social sono progettate per sfruttare i nostri difetti e distorcere impulsi sani o perlomeno neutri, come il desiderio di mostrare il nostro lato migliore in pubblico o di avere l’approvazione di chi ci sta intorno. Fondamentale nel modello di business dei social media è l’engagement, che in italiano potrebbe essere tradotto come coinvolgimento, impegno, in un paradossale capovolgimento di significati. L’engagement è la quantità di tempo che passiamo su un certo contenuto – ad esempio un post di Facebook – e quanto interagiamo con esso: misura quanto efficacemente e a lungo una piattaforma è stata capace di catturare la nostra attenzione. È spesso un ostacolo all’impegno e al coinvolgimento reali. Secondo uno studio di Melissa Hunt, dell’Università della Pennsylvania, usare meno i social media porta ad una riduzione significativa di depressione e solitudine: quando non si è troppo occupati a conquistare approvazione online, si può dedicare il proprio tempo ad attività che ci stanno a cuore e ci restituiscono un’immagine positiva della nostra vita.
D’altro canto, non si può negare che siano molti i vantaggi dei social. L’informazione libera e indipendente – pur caratterizzata da luci e ombre – è indubbiamente una delle maggiori conquiste dell’era digitale. Oggi, grazie soprattutto alle piattaforme che consentono a chiunque lo scambio di notizie, di idee e di contenuti, è possibile accedere a fonti che prima erano in mano ai media tradizionali. Inoltre, i social media sono un mezzo di comunicazione democratico ed economico: tutti hanno la possibilità di connettersi senza costi particolari o addirittura senza alcun costo, se si usufruisce di una connessione Wi-Fi libera.
Per queste ragioni molte campagne di sensibilizzazione sociale sono nate da Facebook o da Twitter – si pensi solo al #metoo o alle lotte contro il razzismo – consentendo la denuncia di ingiustizie, disuguaglianze, crimini. La connettività globale ha abbattuto i confini fisici e permesso la creazione di una rete di comunicazione per molti aspetti virtuosa.
Secondo Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista, e Guido Giovanardi, psicologo clinico, quando è sincera e non compulsiva la condivisione produce esperienze di rispetto e riconoscimento reciproco, facilitando un dialogo che può creare nuove connessioni. L’importante, concludono i due studiosi, è non perdere di vista la massima pascaliana per cui la prima regola è parlare con verità, la seconda parlare con discrezione. Cioè con la capacità di scegliere fra un Io che nutre il mondo e un Io che lo ammorba.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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