In rete siamo gestiti da algoritmi che sanno esattamente cosa ci diverte. Un intrattenimento sempre più passivo e compulsivo, proposto da app e piattaforme che sta rapidamente mandando in pensione il concetto di social così come lo conosciamo
Ci sono indizi ovunque: la stagione dei social media potrebbe essere alla fine. La loro egemonia sta scricchiolando, per qualcuno sono addirittura in fase terminale. Twitter è stato comprato da Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, e da allora ha perso milioni di utenti e soprattutto tantissimi inserzionisti, principale fonte di profitto della piattaforma. Meta, l’azienda che possiede Facebook e Instagram, ha licenziato migliaia di dipendenti e molti degli utenti più giovani si stanno spostando su TikTok, la famigerata app cinese di video brevissimi.
Sembrerebbe una dinamica già nota, il naturale declino di alternative ormai vecchie a favore di novità più scintillanti. In realtà il cambiamento che si profila sembra molto più profondo. TikTok non è davvero un social network, nonostante si tenda a definirlo tale, ma piuttosto una piattaforma di intrattenimento. Aprendo l’applicazione, ci si trova davanti un video breve, di meno di un minuto, selezionato da un algoritmo imperscrutabile. Scorrendo verso il basso, altri video a tutto schermo appaiono uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità: non è l’utente a cercarli, ma la piattaforma a selezionarli in base a quelli che crede (spesso con grande accuratezza) essere i gusti dell’utente medesimo.
Il modo in cui è organizzata la piattaforma rende difficile l’interazione con terzi o anche solo con persone che già si conoscono. L’utente medio pubblica raramente, è uno spettatore del contenuto che gli viene offerto, e nonostante sia possibile seguire i propri amici, l’app non è progettata per creare connessione. I social media tradizionali invece si basano sul rapporto fra utenti che in linea di massima si conoscono, condividono aggiornamenti sulle proprie vite, si inviano messaggi reciproci. In generale i social tradizionali permettono (o danno l’illusione) di comunicare con un network più ampio rispetto alle persone con cui manteniamo rapporti nella vita reale.
Nel tempo questo modello si è in parte modificato, con la nascita degli influencer e con il desiderio di avere una finestra spalancata sulla vita di personaggi famosi; ma anche a causa del cambiamento nel modo in cui le piattaforme funzionano. Sono già anni che, per chi usa i social media, i post da amici e persone che si seguono sono diventati più difficili da trovare. Oggi, a differenza di quanto avveniva fino a poco tempo fa, chi apre Instagram o Facebook è costretto a subire contenuti che non ha scelto, inframmezzati dai post di inserzionisti che pagano per aumentare la propria visibilità. Il risultato non è proprio “sociale”: l’obiettivo è piuttosto di aumentare e sostenere interazioni di contenuto commerciale, non costruire comunità che possano collaborare o comunicare tra loro. TikTok ha portato all’estremo il cambiamento che era già in atto, puntando tutto sulla compulsione umana alla distrazione.
A pensarci, non è un’evoluzione scioccante. Prima di TikTok esisteva la televisione, prima ancora la radio, le riviste e così via. Quello che cambia è il metodo con cui i contenuti sono prodotti: tanti creatori che pubblicano i loro contenuti invece di una programmazione dall’alto. E soprattutto quello che cambia è lo sviluppo sempre più radicale di un intrattenimento che richiede un impegno cognitivo minimo: seguire la puntata di una serie tv è comunque più impegnativo che scorrere una sequenza di video di 30 secondi.
Erich Fromm, lo psicologo e filosofo tedesco, decenni prima dell’avvento dei social aveva previsto questo sviluppo. In Anatomia della distruttività umana scriveva: «La vita contemporanea nelle società industriali opera quasi completamente con stimoli semplici. Vengono sollecitate pulsioni come desiderio sessuale, avidità, sadismo, distruttività, narcisismo; questi stimoli sono mediati da cinema, televisione, radio, giornali, riviste e dalle esigenze di mercato».
Aveva capito, in tempi che ora ci sembrano insospettabili, che i media di massa cercano modi sempre più sofisticati di sfruttare gli stimoli semplici: stimoli che producono una pulsione, da cui si è guidati quasi inconsciamente. Essi non richiedono una risposta attiva, un’interazione con la fonte dello stimolo. Siccome gli stimoli semplici sono, appunto, semplici, tendono alla ripetitività e per continuare a sollecitare la nostra attenzione devono mutare di contenuto o aumentare di intensità. «Il meccanismo è sempre lo stesso: stimolazione semplice verso risposta immediata e passiva. Ecco il motivo per cui gli stimoli devono essere cambiati costantemente, per non perdere efficacia». TikTok sembra aver portato questa ricetta all’estremo: contenuti brevissimi, sempre nuovi e rapidissimi, ad alta intensità.
Le piattaforme davvero sociali (con tutti i loro mali, dovuti alla stessa forsennata ricerca di modi per tenerci incollati allo schermo) sono dunque in fase di declino, e stiamo tornando, anche se con modelli nuovi, a forme più tradizionali di intrattenimento. È un bene o un male? Uno sbandamento momentaneo o un cambiamento permanente? Difficile dirlo, difficile fare previsioni. Ma considerati i tempi rapidissimi che hanno le mutazioni nell’era digitale, è probabile che lo sapremo presto.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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