La persona con demenza è capace di comprendere chi le vuole bene, chi l’accompagna con dolcezza e attenzione, e chi, invece, esprime trascuratezza, abbandono, talvolta anche aggressività
Quanti timori, quante preoccupazioni destano le demenze, e l’Alzheimer in particolare. Temiamo per noi e quindi scrutiamo con ansia qualsiasi nostro piccolo segno, che ci pare possa essere un segnale premonitore, e temiamo per i nostri famigliari e amici, che guardiamo con apprensione per qualsiasi loro manifestazione che ci richiama alla parola che pronunciamo con angoscia…: “Alzheimer”! Questi atteggiamenti sono dovuti principalmente a quanto leggiamo sui social o sui giornali o su altri mezzi di comunicazione, dettati dalla necessità di farsi notare e non da un sano desiderio di informare. Invece, dobbiamo avere la coscienza che la malattia permette ancora “anni possibili”, certamente diversi da quelli di altre persone, ma sempre espressione di vitalità.
Per evitare che questa visione esclusivamente negativa impedisca di vivere la demenza come un momento della vita, pur difficile e complesso, è importante dimostrare che le demenze sono malattie di lunga durata, che però non cancellano la vita. Infatti, resta sempre un legame d’amore tra l’ammalato e chi gli vive attorno, anche nelle fasi più avanzate della malattia. Un amore che nel tempo del dolore e della fatica continua a essere donatore di vita.
La persona ammalata non perde la capacità di attaccamento alla vita, esprimendo interessi di esperienza, diversi da quelli della razionalità. La persona perde la memoria, la capacità di interpretare la realtà, ma non perde la capacità di esprimere scelte legate al proprio vissuto più profondo. L’esperienza, anche quella non razionale, lascia segni nella carne della persona ammalata, la quale conserva ancora la capacità di scegliere alcune tappe per costruire il suo futuro. Ovviamente ciò avviene per la gran parte del tempo di malattia, escluse le fasi finali; anche in queste, però, talvolta si sviluppa un contatto privilegiato tra il malato e alcuni famigliari. Non deve essere interpretato con scetticismo da parte di chi è estraneo ad una relazione profonda e misteriosa ma, al contrario, valorizzato perché permette a chi assiste di sentirsi ancora attore di una relazione che viene compresa da chi ne è beneficiario.
La persona con demenza è capace di comprendere chi le vuole bene, chi l’accompagna con dolcezza e attenzione e chi, invece, esprime trascuratezza, abbandono, talvolta anche aggressività. Questa interpretazione dell’esistenza dei malati deve diventare lo scenario di fondo di qualsiasi atto di cura, per ispirare una prassi gentile e per costruire una relazione positiva, che dura nel tempo. La perdita di memoria, infatti, può indurre la perdita della capacità di ricordare il nome di un famigliare, di un caregiver, di un operatore, ma non potrà far dimenticare il volto sereno, la carezza, il calore di un contatto.
L’affermazione che la vita continua durante la malattia riguarda anche l’organizzazione dei servizi, perché la regola della personalizzazione non si cancella quando l’ammalato ha perso la memoria. Continua il dovere di accompagnare e curare, nella certezza che nessuno è uguale all’altro, che nessuno è così compromesso da autorizzare chi cura a comportarsi come fosse inanimato. La medicina da molti anni ha adottato la capacità di trasformare le regole generali della cura in atti riferiti alla singola persona, che conseguono ad una indagine approfondita e accurata delle dinamiche biologiche, cliniche e psicologiche del singolo, anche quelle apparentemente più estreme. Si potrebbe dire che la demenza è una malattia che impone legami d’amore se si vuole che le sue conseguenze siano meno pesanti, per chi lo dona e chi lo riceve.
Il criterio di dignità e valore della vita non può mai essere dimenticato di fronte all’ammalato, anche il più compromesso. Un criterio che deve appartenere ad ogni cittadino, quando è impegnato in una relazione di cura, criterio che deve essere patrimonio, in particolare, di chi opera in un servizio di assistenza. Per raggiungere la capacità di intravvedere nell’ammalato la sua dignità occorre una formazione sia sul piano culturale e tecnico, sia su quello civile (e religioso, per chi ne ha la possibilità). Nessuna condizione, seppur grave e disturbante (si pensi in particolare ad alcune manifestazioni comportamentali in corso di demenza), può cambiare un atteggiamento indiscutibile e fermo di rispetto della dignità assoluta della persona, fondata sul fatto che ciascuno ha un valore maggiore della sua struttura biologica e della sua psiche. Per questo la terminologia “persona affetta da demenza” è irrinunciabile; così, a cominciare dagli aspetti formali, non si riduce l’ammalato alla sua patologia, con il rischio concreto che malattia e vita si confondano, ma si valorizza l’individuo, indipendentemente dal suo livello di memoria e di altre funzioni. Perché l’Alzheimer non cancella la vita.
Michela Marzano ha scritto recentemente: “Ma si diventa davvero altro da sé quando si perde la memoria? Si è davvero soli o le relazioni affettive, nonostante tutto, restano possibili?”. Noi crediamo che davvero siano possibili!
Marco Trabucchi è specialista in psichiatria. Già Professione ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università di Roma “Tor Vergata”, è direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia e direttore del Centro di ricerca sulla demenza. Ricopre anche il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e della Fondazione Leonardo.
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