Trent’anni dopo il tragico suicidio ricordiamo Kurt Cobain, uno dei grandi del rock. Il cantante, chitarrista e compositore dei Nirvana, eroe del grunge, fu il vero mito della generazione X.
«Francamente, sto male pensando al futuro», disse Kurt Cobain in una delle sue più citate interviste. «Sto male a dirmi che tra dieci anni sarò ancora sul palco a risuonare le canzoni dei Nirvana. Impossibile. Non voglio criticare chicchessia, ma non sono Eric Clapton. Non mi metterò a cambiare i testi delle mie canzoni man mano che invecchio». E non l’ha fatto. Il frontman dei Nirvana, il gruppo più iconico dell’epopea grunge, ha messo fine alla sua vita trent’anni fa con un colpo di fucile alla testa.
Premonitrice anche una delle foto più famose della band: seduti sul cofano di una berlina nera, Cobain tiene un fucile mitragliatore in bocca, alla sua sinistra Dave Grohl ride in maniera tirata e a destra Krist Novoselic simula una posa disinvolta. L’unico serio è lui, con il pollice destro ancorato al grilletto. Una fine attesa la sua, che portava le stigmate più drammaticamente depressive e romantiche della “generazione X” (quella dei nati tra gli ultimi Sessanta e i primi Ottanta, secondo la denominazione presa dall’omonimo romanzo di Douglas Coupland), che ne visse e interpretò il sentire più radicale e intimo, così come le pulsioni più innovative e quelle più distruttive.
A trent’anni dalla perdita
Personaggio schivo e riservato, schierato dalla parte dei gay, delle donne, dei neri, Kurt fu il faro dell’epopea breve e bruciante di una band che ci ha lasciato uno dei capolavori assoluti della storia del rock, l’album del 1991 Nevermind. Secondo la testata americana “Rolling Stone”, è il sesto nella classifica dei migliori dischi di tutti i tempi, classifica che vede poi al 173° posto l’altro, fascinoso In Utero del 1994 e al 279° il lavoro acustico dal vivo MTV Unplugged In New York dello stesso anno.
La prima, semplice realtà da dire di lui è che fu un grande cantante, chitarrista e compositore rock, che guidava una band formidabile, grazie anche all’empatia, all’impegno e alla disciplina del bassista Novoselic e del batterista Grohl. Il loro fu l’ultimo colpo di coda del rock, un’esplosione post-punk, che è ancora oggi ferocia scolpita, follia sotto controllo, agonia nell’estasi. Un’esplosione che fa saltare fuori dalle ossa le persone, fisicamente ed emotivamente. Canzoni irregolari e strazianti, la cui gloriosa irregolarità, abrasiva e accecante, aiuta chiunque a dimenticare qualsiasi cosa tranne la musica stessa.
La resa
Le contraddizioni continue di Kurt e la sua propensione al nichilismo e all’apatia sono quelle di una generazione che non vede sbocchi, che si trova annegata nel consumismo e nell’individualismo e che non riesce a dare un senso al proprio disorientamento, al proprio vuoto interiore. Quelle di un perdente come tanti, timido e tossicomane, infelice e volubile, malinconico e ribelle, che finì per autosconfiggersi definitivamente il 5 aprile 1994, sopprimendo «il miserabile, autodistruttivo, funebre rocker che sono diventato», come scrisse nella lettera di commiato, indirizzata all’amico immaginario Boddah.
Afflitto da una gastrite psicosomatica che lo tormentava fino a portarlo alla dipendenza dall’eroina e dagli psicofarmaci (durante un tour in Italia, fu portato in coma in un ospedale romano), conviveva con il dolore. Un dolore che diventava rabbia ed eversione nella sua voce, nelle sue parole, nelle sue musiche. «Provo sempre dolore e questo aggiunge rabbia alla nostra musica. In un certo senso gli sono grato», diceva.
Kurt oggi
Se non avesse deciso di chiudere la sua parabola rapidissima, nemmeno mille giorni, di rocker fragile, oggi di certo non sarebbe come l’imbolsito compagno di viaggio Dave Grohl, che pure ha avuto qualche colpo d’ala con gli epigoni Foo Fighters. O peggio come l’altro partner Krist Novoselic, il venditore ambulante di riviste pornografiche nel film Il papà migliore del mondo con Robin Williams. Probabilmente quel giovane uomo, fragile di fronte allo specchio di un mondo in divenire e di fronte alle contraddizioni della sua anima, ribelle e visionario e sognatore, avrebbe percorso una via verso il sorriso, circondato da un’aura di trovata positività anche di fronte alle situazioni più terribili.
Avrebbe rintracciato un ostinato francescanesimo come salvezza contro la rabbia, contro l’odio, contro l’indifferenza, verso un minimalismo espressivo con il pregio unico di dire le cose con il proprio nome, diretto alla giugulare di ogni ascoltatore. Avrebbe raccolto i frammenti dispersi di un rock frantumato da Internet e dal suo stesso degrado per farne dosi da iniettare in un ostinato universo di piccole storie di ogni giorno, difficili e disperate. Chiuso in un cortocircuito di fantasie elettriche e di paure sconcertanti, eppure ancora vivo e pugnace, ma non ha avuto il coraggio di attendere, perché per lui la vita era diventata Più pesante del cielo, come titola la biografia che Charles R. Cross gli ha dedicato nel 2001.
(Foto apertura:
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