Sessantotto anni fa Edmund Hillary (1919-2008) e Tenzing Norgay (1914-1986) raggiunsero per primi la vetta della montagna più alta del mondo, l’Everest. I due si fermarono in cima per circa 15 minuti, il tempo di alcune foto e di piantare una croce nella neve. Poi iniziarono la discesa per la mancanza di ossigeno. Questa avventura rivive ancora nei ricordi di Kancha Sherpa, l’ultimo testimone di quei momenti che entusiasmarono il mondo.
Una leggenda ultraottantenne
Dopo la scomparsa degli altri protagonisti, solo lui, con i suoi 88 anni, può raccontare ormai in prima persona quell’avventura. Kancha oggi passa il rigido inverno a Katmandu, la capitale del Nepal, e solo agli inizi della primavera, quando gli escursionisti tornano nel Khumbu, la regione dell’Everest, torna nel suo paese, Namche Bazar, a 3.440 metri di altitudine. Qui si trova il Nirvana, l’hotel che da anni gestisce la sua famiglia. E qui, vera leggenda vivente, ha l’occasione di raccontare ai turisti sbalorditi tutti i dettagli della prima ascesa all’Everest, il 29 maggio 1953.
Un inizio casuale e l’approdo alle missioni di Tenzing
Kancha nasce in un’umile famiglia, non ha mai imparato a leggere o scrivere e a 19 anni parte per cercare una nuova vita in India. Qui lavora per il suo connazionale Tenzing Norgay, alpinista e autore di guide per gli amanti della montagna. Poco dopo Tenzing gli chiede di far parte del seguito di 103 trasportatori (sherpa, in lingua locale), che lo avrebbero aiutato a compiere la sua impresa: conquistare la cima della montagna più alta del mondo. Abituato al clima himalayano e all’altitudine, Kancha – con i suoi compagni – trasporta bombole di ossigeno e materiale da campo per 5 rupie al giorno, raggiungendo con fatica gli 8.000 metri.
La conquista dell’Everest nei ricordi di Kancha Sherpa
L’ultimo sherpa della conquista dell’Everest ricorda con emozione quel giorno di 68 anni fa. Era al Campo Due. «Non c’era la radio – racconta – quindi non potevamo fare altro che aspettare. Quando sono scesi, tutti si abbracciavano e applaudivano».
Hillary e Tenzing avevano conquistato la cima. Una cosa resta impressa nella sua mente: la quantità di cibo che la spedizione abbandonò sulla montagna: «Abbiamo lasciato così tanto cibo al Campo 2: biscotti, carne in scatola, tè e dolci», racconta.
Certo, la scalata era stata difficile e faticosa. Tutto era differente allora: l’equipaggiamento, gli abiti, il kerosene per cucinare. Sull’Everest, gli sherpa più esperti gli hanno insegnato a camminare con i ramponi e ad usare una piccozza. «La cascata di ghiaccio era spaventosa, usavamo dei tronchi per attraversare i grandi crepacci. Non avevamo scale ferrate come oggi», ricorda, scuotendo la testa con un sorriso. Kancha, come la stragrande maggioranza degli accompagnatori, aveva scalato l’Everest per il compenso e non per la soddisfazione personale. Ed era tornato a farlo per altre 5 volte, finché – nel 1973 – sua moglie lo ha convinto a rinunciare.
La vetta più alta, violata dall’uomo, in ogni senso
Nonostante la tecnologia sia migliorata, l’Everest fa ancora paura. Negli ultimi anni hanno fatto scalpore le lunghe file di alpinisti, costretti ad attendere ore per l’affollamento sui percorsi verso la vetta. Immobili, con il rischio mortale di finire l’ossigeno. Nel 1996 un’improvvisa bufera di neve ha colpito un gruppo in attesa del suo turno, provocando la morte di otto persone.
Ma c’è un altro aspetto inquietante: le spedizioni hanno bisogno di una grande quantità di attrezzi, che spesso finiscono abbandonati sul percorso e sulla vetta. Tende di colore fosforescente, attrezzatura, bombole di ossigeno vuote e persino escrementi congelati giacciono da tempo sulle pendici della vetta di 8.848 metri, che si è guadagnata il triste soprannome di “discarica più alta del mondo”.
Il compromesso per una vita migliore e la montagna tradita
Kancha sa che da un lato l’impennata del turismo ha permesso a molte famiglie una vita migliore. «Sessant’anni fa a Namche Bazar non c’erano neppure i soldi per comprare vestiti e cibo, adesso si vive dignitosamente», racconta.
Ma dall’altro lato è consapevole che, da quando scalare è diventato più semplice, è venuto meno il rispetto per la montagna, sacra per i Nepalesi: «Quando non esistevano ancora i sentieri – ricorda -, i ponti sospesi e i rifugi, l’unico modo per farci coraggio e sperare di raggiungere la vetta era pregare».
A lui sono stati dedicati libri, interviste e persino un docu-film, ma Kancha non si sente una star. Impegnato nella conservazione della cultura tradizionale sherpa, si gode la sua età. Ama rimanere a casa a giocare con i suoi nipotini, pregare, passeggiare al mercato e prendere una tazza di tè, scambiando due chiacchiere.
«Il turismo è stato un bene per gli sherpa, ma è un male per gli dei», ammette con una risata amara. Indica le montagne oltre la sua finestra: «Quando ero ragazzo – ricorda – d’inverno c’erano molti metri di neve. Ora, le vette sono nere. Questo non è buono».
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