Sono sempre lì a guardare lo smartphone, si sentono persi senza connessione, allo stesso tempo però utilizzano la Rete al minimo della sua reale potenza e utilità. Così gli italiani, popolo di santi, poeti e “internauti”, finiscono per perdersi “il meglio e il bello” del Web, usufruendo poco di servizi sanitari e bancari. Non è un problema di conoscenza dei dispositivi impiegati. La questione è di carattere culturale e ben più profonda, tanto profonda da attraversare in modo trasversale ogni generazione, dai “nativi” agli “immigrati e alfabetizzati” digitali.
In Italia più della metà della popolazione non ha competenze digitali di base: è il 56% contro un 44% di individui tra i 16 e i 74 anni che al contrario dimostra di averle. I dati sono quelli del Rapporto Desi – The Digital Economy and Society Index 2019, che – ogni anno – pubblica una sintesi degli indicatori delle prestazioni digitali in Europa, tracciando l’evoluzione dei suoi Stati Membri nella competitività digitale. C’è una problema, però. Anzi due. Il primo è che questo accade in un mondo in cui sempre più attività si svolgono ormai online. Il secondo è che la media europea è più alta di ben tredici punti percentuali rispetto a quella italiana. È paradossale se si pensa che – sempre secondo il Desi – noi italiani siamo un popolo molto connesso: gli utenti internet sono il 72% della popolazione. Una conferma che arriva anche dal Rapporto Digital 2019 di “We Are Social”, secondo cui le connessioni mobili sono 86 milioni in totale (una e mezza per abitante) e che, in media, si è online poco più di 6 ore al giorno, 2 delle quali sui Social Media.
Purtroppo il punto è “come” noi italiani siamo online. Cosa facciamo? Dove andiamo? Sembra mancarci il senso dell’utilità del Web, ci dedichiamo ad attività tutto sommato veloci, una specie di “take-away” della Rete. Ci riduciamo ad una gamma di attività online più ristretta rispetto agli utenti di altri Paesi. Accediamo dallo smartphone e ai social, usando internet in modo facile e commerciale.
L’Ocse lo aveva già confermato lo scorso maggio con la relazione Skills Outlook 2019 in cui sosteneva che non possediamo le competenze di base necessarie a prosperare in un mondo digitale e che solo il 36% degli individui in Italia, il livello più basso tra i Paesi Ocse, sa usare Internet in maniera complessa e diversificata.
In queste condizioni, la digitalizzazione non solo è più difficile, ma rischiamo di non avere sufficienti competenze per comprendere i vantaggi dei servizi digitali della Pubblica Amministrazione. Insomma, “leoni da tastiera” sui Social, ma poi incapaci di prenotare una visita medica online. In un Paese come il nostro, dove l’innalzamento dell’età anagrafica ormai avanza, è un rischio reale. È un ulteriore digital divide, che va al di là del “semplice” accesso alla Rete, un gap che a mano a mano viene colmato ma che lascia spazio ad una nuova modalità di emarginazione. Sono infatti soprattutto i senior, in crescita, ad aver il maggiore vantaggio da un’alfabetizzazione cosciente dei servizi amministrativi e sanitari.
L’esclusione non è praticamente più legata alla mancanza di connessione, scontiamo invece un livello di istruzione mediamente inferiore a quello di altri Paesi dell’Ue. Anche qui, l’unica soluzione resta l’educazione ad un uso più consapevole dei nuovi media, cosa che si fa da tempo, ad esempio, nelle scuole del Regno Unito e dell’Australia. Qualcuno potrebbe pensare che un uso massivo del Web potrebbe risolvere il problema, ma questo è solo l’altro volto del digital divide, di quel disorientamento tipico di chi non ne ricava alcun reale beneficio. In genere, questo comportamento è tipico delle generazioni più giovani e, anche qui, aumentare la competenza significa diminuire la dipendenza da smartphone e altri dispositivi.
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