Guardando ai dati del nostro Paese, risulta evidente quanto sia necessario rimettere mano, al più presto, all’impianto previdenziale. Una riforma che dovrà guardare anche al futuro, per tutelare le nuove generazioni.
Dopo la caduta del Governo Draghi, sarà difficile che una riforma organica del welfare previdenziale possa vedere la luce in tempi brevi.
Eppure, pur con le molte urgenze che il nuovo Esecutivo si troverà a dover affrontare, è quanto mai necessaria una ripartenza del “cantiere-pensioni”, dopo troppi mesi di stallo dovuti anche ad una situazione internazionale che, per il quadro politico, economico e sanitario che presenta, ha legittimamente catalizzato l’attenzione e le priorità dell’Esecutivo.
L’urgenza di mettere mano all’impianto previdenziale non deriva soltanto dalla necessità di trovare un meccanismo di flessibilità in uscita che – dopo la scadenza, prevista a fine anno, di “Quota 102” – eviti lo “scalone” che dal 2023 si riproporrebbe a seguito della integrale applicazione della normativa “Monti-Fornero”.
La riforma che verrà dovrà avere, infatti, un respiro più ampio ed un orizzonte più lungo, che guardi non solo alle uscite imminenti, ma si occupi anche di stabilizzare il sistema, a beneficio anche dei giovani, molti dei quali, per fisiologica “lontananza” dall’obiettivo o a causa della scarsa fiducia nelle dinamiche del mercato del lavoro in cui dovranno “navigare”, considerano forse la pensione un traguardo irraggiungibile.
Per comprendere l’urgenza di mettere mano ai meccanismi di welfare, vale la pena dare uno sguardo alla fotografia che dell’Italia, del suo panorama previdenziale e dei suoi scenari socio-demografici (che, come noto, influenzano l’andamento previdenziale e la sostenibilità del sistema) delineano due recenti rapporti.
Il Rapporto ISTAT 2022 fotografa un’Italia profondamente cambiata da due anni di pandemia, che ha avuto un forte impatto sul tessuto produttivo (perdita generalizzata di fatturato delle imprese; oltre il 30% di imprese di alcuni settori – ricreazione, alloggio, ristorazione – a rischio di cessazione attività, con le conseguenze che ne potrebbero derivare in termini di occupazione, di impoverimento dei lavoratori coinvolti e delle relative famiglie, e di costi per la collettività) e con una inflazione in forte crescita (+8,5% a giugno 2022 rispetto al 2021, dato che, se confermato a fine anno, comporterà una maggiore spesa previdenziale, solo per l’adeguamento delle pensioni in essere, di ben 24 miliardi di euro nel 2023).
Ne esce l’immagine di un’Italia con forti disuguaglianze, di genere, generazionali (1,4 milioni – pari al 14,2% – di minori in povertà assoluta; la percentuale è del 5,3% tra gli over 65), geografiche, salariali, ecc. e con profonde trasformazioni familiari: -47,4% di matrimoni celebrati; ben 4,6 milioni di anziani bisognosi di aiuto nella cura personale e della casa, che sempre meno possono contare sul supporto del “welfare familiare” (il rapporto fotografa 8,5 milioni di persone sole, pari al 33,2% delle famiglie), mentre, di contro, i giovani hanno sempre più difficoltà ad acquisire indipendenza (7 milioni di giovani di età 18-34 anni – pari al 67,6% del totale – vivono ancora nelle famiglie di origine).
I dati evidenziano, inoltre, un’evoluzione demografica caratterizzata da una persistente bassa natalità (a marzo 2022: -11,9% rispetto all’anno precedente) e da una longevità sempre più marcata. L’indice di vecchiaia (anziani di almeno 65 anni per 100 giovani di età inferiore a 15 anni) è pari al 187,9% (cresciuto di oltre 56 punti percentuali in 20 anni e che si prevede raggiungerà il 293% nel 2042).
Il progressivo invecchiamento della popolazione (dovuto al calo delle nascite e ai trend migratori), unitamente alla progressiva uscita dal mondo del lavoro dei Baby Boomer (alla quale non sopperisce un corrispondente ingresso dei giovani, proprio per il rapporto sbilanciato tra i 15enni e i 65enni), provocherà una drastica riduzione della popolazione attiva: si stima, infatti, che nel 2030 ci saranno 1,98 milioni di residenti in meno, rispetto ad oggi, di età compresa tra i 15 ed i 64 anni.
La percentuale della popolazione attiva – già oggi scesa al 63,5% – è destinata ad abbassarsi al 61,5% nel 2030, fino a toccare il livello (previsionale) del 54,1% nel 2070: un andamento che si rifletterà non solo sulle dinamiche del mercato del lavoro, ma che costituirà anche un problema strutturale per la sostenibilità del sistema previdenziale.
Il progressivo avvicinamento alla pensione della generazione dei Baby Boomer comporterà infatti una riduzione della base contributiva, non recuperabile neanche con l’eventuale ed auspicabile introduzione, fin da subito, di politiche efficaci di contrasto alla denatalità, che produrrebbero effetti sul mercato del lavoro solo tra 20/25 anni; occorre intervenire, quindi, sulle situazioni correnti.
L’attuale andamento del mercato del lavoro è stato analizzato anche dal XXI Rapporto annuale INPS, che ha evidenziato una ripresa dell’occupazione (tornata a livelli ante pandemia), a fronte, però, di un aumento della precarietà (22% dei rapporti di lavoro) e di una diminuzione delle ore lavorate, con conseguenze sfavorevoli sulle retribuzioni e con una crescita delle disuguaglianze retributive: ben 4 milioni di dipendenti del settore privato – 29,5% del totale – percepiscono una retribuzione lorda annua inferiore a 12.000 euro; il 23% dei lavoratori guadagna addirittura meno di 780 euro al mese, cioè meno della soglia di fruizione del reddito di cittadinanza.
Anche tra i pensionati risulta molto elevata (40%) la percentuale di chi percepisce un importo complessivo dell’assegno inferiore a 1.000 euro mensili (la percentuale scende al 32% tenendo conto delle varie “maggiorazioni” associate alle prestazioni: trattamento minimo, maggiorazione sociale, quattordicesima, indennità di accompagnamento).
Evidente anche la disparità di genere: le donne percepiscono pensioni più basse (rappresentano il 52% del totale dei pensionati, ma percepiscono il 44% dell’intera spesa: una media di 1.374 euro contro i 1.884 euro degli uomini); molte di loro lavorano con rapporti part-time, quindi hanno retribuzioni inferiori agli uomini e maturano contributi più bassi.
I nati tra il 1965 ed il 1980 (la cosiddetta “Generazione X”), poi, si avvicinano all’età della pensione, ma per molti di loro, carriere irregolari e frammentate, caratterizzate in molti casi da contratti temporanei, avranno – unitamente all’applicazione del calcolo contributivo – un impatto negativo sull’importo dell’assegno. E questo fenomeno sarà probabilmente ancora più accentuato per le generazioni successive.
È questo il contesto di cui il legislatore dovrà tenere conto nell’approcciarsi a qualsiasi riforma o provvedimento finalizzato a migliorare il sistema di tutele offerto dal welfare pubblico.
Se in futuro vorremo guardare una fotografia del Paese diversa e più positiva, servono – oggi – idee ed investimenti.
Per riprendere le parole del Presidente dell’INPS: «Chi è povero lavorativamente oggi, sarà un povero pensionisticamente domani»; far crescere le retribuzioni ed abbattere la precarietà è non solo una questione prioritaria e fondamentale per garantire pensioni adeguate e la sostenibilità del sistema previdenziale – che senza crescita economica non riuscirebbe a rimanere in equilibrio -, ma anche un imperativo etico e di dignità.
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