Gli abbracci diventano emoticon in un mondo dove i social network occupano sempre più spazio nella quotidianità di ognuno di noi. Avviare una riflessione sul loro utilizzo è un dovere ma anche un passo verso una consapevolezza più matura e funzionale. Perché un divertimento non ci renda schiavi.
Siamo continuamente connessi. Per la maggior parte di noi, lo smartphone è l’ultimo oggetto che posiamo la sera prima di andare a letto e il primo che prendiamo tra le mani al mattino. La frenesia quotidiana, la velocità con cui accadono i fatti e quella con cui noi li recepiamo, ci hanno portato a vivere un universo parallelo dove i social – lo possiamo dire senza nasconderci – la fanno da padrone. E questo avviene per ogni età. Avviene per diletto, sì, ma avviene anche per lavoro. Capita, sempre più spesso, di vedere gruppi di giovani seduti sulla stessa panchina, o allo stesso tavolino di un bar, con gli occhi puntati sullo schermo dei loro telefoni. E capita anche di vedere senior che – accomodati sul divano, in compagnia – leggano notizie dai telefonini, pubblichino post e foto. Se da un lato, questa iperconnessione rende possibile avvicinarci a chi vive dall’altra parte del mondo e a promuovere l’idea sempre più concreta della globalizzazione, dall’altro lato crea le distanze fisiche e sociali. Fisiche perché anche la telefonata per augurare ‘buon compleanno’ a un’amica viene sostituita da un messaggio virtuale, lasciato su una bacheca altrettanto virtuale. Il fine è lo stesso: gli auguri sono arrivati, ma dov’è finito il calore delle parole? Dove sono finiti gli abbracci che diventano emoticon? E crea le distanze anche sociali perché si tende – vuoi per l’algoritmo, vuoi per una scelta precisa – a raggiungere persone che appartengono quasi esclusivamente a un determinato mondo, senza confronto, abbandonando quel concetto di prossimità sociale tipico della comunità. La cronaca di queste ultime settimane, poi, apre uno spaccato anche meno ‘felice’ dei social network. Lo fa perché ci racconta del possibile suicidio di una imprenditrice del nord che – stando ai fatti di questi giorni – si sarebbe tolta la vita perché vittima della gogna mediatica. Una gogna che, vale la pena ricordare, sarebbe stata attuata dai social e dai mezzi di comunicazione in generale. Poco prima di Natale, a tenere banco sulle cronache nazionali, è stato il cosiddetto ‘balocco-gate’ che vede protagonisti la nota azienda dolciaria e una famosa influencer italiana che, con i social, ha costruito un impero di decine di milioni di euro: entrambi i protagonisti sono ad oggi indagati per truffa. Ora, senza entrare nel merito di vicende giudiziarie (ancora in corso mentre scriviamo) e senza sederci dalla parte della ragione per partito preso, rimane una domanda: come utilizziamo i social? Chi lo fa per lavoro ha poche alternative, li usa principalmente perché impegnato a studiare strategie, grafiche, indicizzazioni che portino traffico e generino consensi, dal commercio alla politica. Chi lo fa per divertimento, invece, può ancora scegliere come usare il tempo che ha a disposizione, con parsimonia e provando a stare più dentro la vita reale che quella virtuale. Qualche tempo fa, è stata introdotta sul mercato un’applicazione che consente di monitorare il rapporto che abbiamo con i cellulari, segnalando quante volte nell’arco di una giornata tocchiamo lo schermo del telefonino. Lo studio, ante-Covid, rivela che in media si tocca il cellulare millecinquecento volte in una settimana. Troppo? Troppo poco? Dipende dai punti di vista, dalla relatività tipica di ogni fenomeno di massa. E allora è forse giunto il momento, a vent’anni dall’entrata in vigore di Facebook, di avviare una riflessione per capire – ognuno per proprio conto – quanto i social condizionino la nostra vita, le nostre scelte (etiche prima di tutto), la nostra quotidianità. Ho rimarcato volutamente la parola ‘nostro’ perché non dobbiamo mai dimenticare che c’è un privato da proteggere, comunque si decida di leggere questa storia.
© Riproduzione riservata