Architetto paesaggista e professore di Urbanistica al Dipartimento di pianificazione, design, tecnologia dell’architettura dell’Università La Sapienza di Roma, Carlo Valorani ci spiega il cambiamento sociale in corso e le sue ripercussioni sugli spazi urbani.
«Siamo in un momento di passaggio, e la pandemia ha sicuramente messo in luce alcuni elementi già presenti in precedenza che ora non possono più essere ignorati». Così Carlo Valorani, architetto paesaggista e professore di Urbanistica presso il Dipartimento di pianificazione, design, tecnologia dell’architettura dell’Università La Sapienza di Roma, ha risposto a 50&Più a proposito del cambiamento sociale in corso e delle sue ripercussioni sugli spazi urbani.
«Pensiamo allo smart working: come ha scritto anche Domenico De Masi (autore di Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente, ndr), è una questione di cultura e risorse. C’è stato un lungo ritardo nell’organizzazione del lavoro nel settore terziario e si è rimasti affezionati ai modelli industriali. Questa ritrosia al cambiamento ha fatto in modo che si perpetrasse un meccanismo di distribuzione umana sul territorio che fino alla pandemia era legato alla rendita urbana. Questa è riuscita a drenare le frequentazioni quotidiane delle persone verso le aree centrali con il fenomeno del pendolarismo, per il quale durante la giornata i lavoratori frequentano il centro e la sera lo abbandonano per tornare nei luoghi di abitazione. Il pendolarismo ha creato da un lato congestione e traffico, dall’altro ha fatto in modo che a livello culturale non si sviluppasse una sensibilità rispetto al verde e ai servizi di vicinato. Di conseguenza i servizi alla persona, i locali come bar e ristoranti si sono concentrati nei centri e grazie alla densità umana si sono potuti permettere di contribuire a questa rendita, ad esempio, con affitti altissimi. Cosa che non è successa con le residenze, causando un processo di terziarizzazione dei centri storici.
È possibile oggi “gestire” questa rendita finanziaria e orientarla verso uno stile di vita più sostenibile?
In alcuni Paesi lo hanno fatto. Ad esempio, in Olanda il meccanismo è stato quello di acquisire a livello statale le aree agricole, urbanizzarle e farle crescere, per poi venderle ai costruttori che, pagandone la rendita urbana, consentono alle istituzioni pubbliche di realizzare la cosiddetta “qualità diffusa” delle aree esterne. In Italia finora i privati hanno portato fuori questa rendita urbana, che in tal modo non è stata reinvestita nelle città. Ora siamo di fronte ad un cambiamento, perché anche la fase post industriale avviata negli anni Settanta sta volgendo al termine. Da allora, quando si è formata la società industriale che ha trasformato il territorio, sono cresciute le sensibilità ambientali e digitali già presenti ancora prima dell’avvento della rete. Oggi, seppure con tutti i ritardi sulle connessioni, il modello di smart working può affermarsi grazie ad un livello culturale maturo; ciò che non è certo è la risposta che arriverà a livello amministrativo e istituzionale rispetto al cambiamento o alla conservazione di meccanismi ormai obsoleti, ma che sono andati avanti nello stesso modo per decenni.
Quali dovrebbero essere gli standard urbanistici per una città a misura delle persone?
Io sono stato uno degli allievi di Vittoria Calzolari e Mario Ghio, autori del libro Verde per la città, che ha ispirato una parte di quelli che si chiamano standard urbanistici da garantire nella città. Secondo il modello industriale, le città diventano a misura di automobile e non di uomo, si perdono gli spazi come luoghi di relazione e se ne perdono le misure: le strade tra gli edifici esplodono, non sono più racchiuse fra le abitazioni e non fanno più comunità ma diventano solo infrastrutture di collegamento e di transito. Ecco, Calzolari e Ghio proponevano già negli anni Sessanta spazi verdi che servissero a dare un’alternativa allo svago virtuale, che allora era rappresentato dalla televisione. Oggi, alle soglie di un nuovo cinquantennio di sviluppo, siamo di fronte ad un nuovo paradigma, con la pandemia che ha funzionato come elemento di crisi globale: i Paesi che riusciranno a governare la pressione della rendita urbana e delle lobby avranno la possibilità di sviluppare il cambiamento adeguando le città alla nuova dimensione. Non si tornerà alle città fortificate, né a quelle industriali estese a dismisura, ma si dovrà ragionare in termini di regioni urbane.
Un tentativo in questo senso lo abbiamo già visto con l’introduzione delle “città metropolitane”…
Prendiamo Roma come esempio: è dimostrato che i flussi quotidiani che arrivano nella Capitale partono da Napoli, Firenze, dal reatino, dal frusinate; di conseguenza, pensare in termini di città metropolitana calcolando solo il pendolarismo provinciale è già da tempo riduttivo rispetto alla realtà degli spostamenti. C’è poi il campo della distribuzione commerciale, con la frequente e crescente sostituzione del negozio di prossimità con la vendita online, i cambiamenti legati ai trasporti, meno vincolati all’acquisto e sempre più orientati al servizio, come dimostra il car sharing, o i nuovi incentivi “why buy”. Il punto è: chi sarà in grado di cavalcare il cambiamento? Il rischio è che gli attori di questi nuovi processi saranno gli stessi che hanno guidato quelli precedenti, ma senza nuove competenze. Una grande struttura regionale crea ricchezza, e l’approccio multidisciplinare dovrebbe essere incoraggiato: per esempio, realizzando nuove reti per la telemedicina si avrebbero infrastrutture adeguate anche per altri scopi.
Quali sono le conseguenze di questo cambiamento che già possiamo scorgere?
Sicuramente alcuni meccanismi sono già cambiati: ad esempio, istituzioni ed enti non compreranno più un grattacielo per farne degli uffici, quindi ora si apre il tema di cosa farne di quegli immobili. Sarebbe bello se diventassero incubatori di idee dove i talenti possano usufruire di tecnologie di eccellenza per la loro attività in uno spazio condiviso. L’altro campo che muterà è quello familiare, perché una diversa organizzazione del lavoro farà rinascere forme di comunità che sembravano superate, come le famiglie allargate, dove anche gli over avranno ruoli nuovi e non solo quelli di supplenza nelle cure parentali. A quel punto però i 50/60 mq che finora erano lo standard abitativo medio delle aree metropolitane non basteranno più e andranno ripensate anche le case. Lo smart working creerà anche una domanda aggregata di centri di quartiere e spazi di qualità, e magari anche i paesaggisti potranno lavorare in questo senso. In fondo il verde di vicinato è fondamentale, lo abbiamo imparato proprio durante il lockdown, quando lo abbiamo vissuto da vicino, costatandone tutte le criticità.
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