La figlia di Paolo Villaggio ha da poco pubblicato Fantozzi dietro le quinte, un piacevole ricordo del padre e del suo personaggio più amato, a cinquant’anni dalla pubblicazione del primo libro dedicato al “mitico” ragioniere.
Ha studiato filosofia a Bologna, e cinema e televisione a Los Angeles. Ha lavorato a lungo presso le principali emittenti Tv nazionali, realizzato due cortometraggi, curato la regia del film Luna e le altre, scritto sceneggiature e anche due romanzi: Una vita bizzarra (2013, Premio Anassilaos alla narrativa) e La Mustang rossa (2016). Attualmente insegna alla Rome University of Fine Arts, presso il dipartimento di Cinema. Elisabetta Villaggio è molto più della “figlia di”.
È stato suo padre a incanalarla verso questa carriera?
No. Lui non ha mai insistito. Però sono cresciuta immersa in questo mondo, il cinema, la Tv: è diventata quasi una scelta obbligata. Papà mi ha presa in alcuni film per fare dei lavori di contorno e di supporto, per imparare il mestiere. Dopo è diventato più difficile, perché in molti pensavano che la mia sola capacità fosse essere la “figlia di”.
Fantozzi è nato prima come personaggio di una rubrica sul settimanale L’Europeo – il direttore voleva qualcosa di paradossale -, poi come protagonista di libri e infine al cinema. È vero che si rifà a un collega di suo padre durante gli anni in cui lavorò come impiegato, tale Bianchi con un ufficio in un sottoscala, oppure è una delle boutade con cui riempiva le interviste?
In famiglia questo non l’ha mai detto, ma non portava il lavoro a casa, ne parlava pochissimo. Di sicuro non amava quello che faceva nella sua vita da impiegato. Secondo me, è stato ispirato dal “suo” rapporto con il lavoro e da tutto quel mondo impiegatizio della fine degli Anni ’50, inizio ’60.
Inizialmente aveva pensato di far interpretare Fantozzi a Renato Pozzetto, che però rifiutò. Non è che all’inizio lo amasse poco o comunque non si immedesimasse con lui?
È vero che avevano chiamato sia Pozzetto che Tognazzi, però tutti e due avevano altri impegni con nuovi film. Allora il produttore gli disse: “Perché non lo fai tu?”. Lui rimase un po’ così, meravigliato, ma poi accettò volentieri e Fantozzi è rimasto totalmente associato a lui. Non è vero che non lo amasse, anzi era quasi un suo terzo figlio. L’aveva creato, plasmato, cambiato, anche a sua immagine e somiglianza. Era una sua creatura, mentre negli altri film faceva sostanzialmente l’attore.
Un momento importante del periodo pre-Fantozzi è stato l’amicizia con Fabrizio De André, con cui ha condiviso il palcoscenico delle navi da crociera e quello del teatro di piazza Marsala. Il cantautore raccontava che insieme facevano lo scherzo degli schiaffi alla stazione prima di Amici miei…
Si conoscevano fin da bambini, perché i rispettivi genitori erano amici. Si trovarono anche a fare le vacanze insieme. Poi si erano entrambi iscritti a Legge, perché ci tenevano i rispettivi genitori, non per scelta loro. Uno voleva recitare, apparire; l’altro fare musica. Erano un po’ dei pesci fuor d’acqua nella Genova di allora, due spiantati che però venivano da famiglie borghesi. Facevano degli spettacolini in giro, a casa di amici. Uno con la chitarra, mentre l’altro diceva battute e inventava personaggi. C’era un’amicizia molto stretta, piaceva a entrambi fare tardi. Fabrizio veniva a casa nostra quasi tutte le sere. Anche quando ci siamo trasferiti a Roma, se per qualche motivo scendeva, si fermava da noi. Stavano bene insieme: grande talento, con qualcosa di avanguardistico nei rispettivi ambiti.
Praticamente lo scoprì Maurizio Costanzo, che ricorda di aver firmato l’accordo con suo padre per averlo a Roma nel suo teatrino di cabaret sul tovagliolo di un ristorante. Lui ebbe il coraggio di lasciare il posto fisso per trasferirsi con tutta la famiglia. Non dovette essere una scelta facile, specie alla fine degli Anni ’60…
Mio padre andò a Roma con una borsa piena di poche cose, un giubbottino, pantaloni, qualche camicia, perché pensava di rimanere pochi giorni, fare qualche spettacolo e tornare. “Tanto non verrà nessuno”, pensava. Invece fu un successo e dovette scendere mia madre per portargli i vestiti necessari e convincerlo a fare questa scelta molto coraggiosa. Lei, che ha sempre creduto molto in mio padre, capiva che non era felice di fare l’impiegato e che aveva le qualità per fare questo salto.
Che tipo di rapporto aveva con il denaro?
Gli piaceva molto, gli piaceva averlo e gli piaceva molto spenderlo. Ne ha sperperato e buttato tantissimo.
Spesso suo padre ha dichiarato che Fantozzi era una figura terapeutica per gli spettatori che non si sentivano competitivi oppure erano isolati sul posto di lavoro…
Mio padre diceva sempre che le persone lo fermavano esclamando: “Lo sa che Fantozzi è proprio come il mio vicino di casa, come mio zio, come un mio collega”. In realtà era un modo per nascondere a se stessi che un po’ di Fantozzi c’è in ognuno di noi, perché a tutti capitano situazioni e reazioni fantozziane. Sul posto di lavoro e nella vita di tutti i giorni. Ci si riconosce, perché è un po’ Paperino, sfortunatissimo.
Però allora era molto sottostimato dalla critica…
Mio padre fondamentalmente era un intellettuale. Leggeva moltissimo, era molto colto, non seguiva gli schemi, gli piaceva la storia che lo aiutava a comprendere i fatti con una mente più aperta. Questo essere considerato quasi un guitto lo disturbava. Diceva sempre che Jerry Lewis era un grandissimo attore e invece era reputato da noi come uno scemone che faceva le facce e parlava strano. E lui si sentiva un po’ così.
Quando parlava di sé, però, lui si definiva un cialtrone, se non peggio. Addirittura, lei dice, era convinto di essere pazzo. Come mai?
Cialtrone lo definivano i suoi amici in modo affettuoso, ma un po’ piccati. Era capace di dare appuntamenti, magari in altre città, e poi cambiava all’improvviso idea senza neppure avvisare. Capisce che era seccante. Del pazzo, invece, me l’ha detto negli ultimi anni. Non era uno che raccontava mai molto di sé e io non avrei mai immaginato che, quando era piccolo, aveva pensato seriamente per alcuni anni di essere pazzo.
Nell’ultimo periodo si dedicò soprattutto al teatro, con altrettanto successo…
Lui ha sempre lavorato sodo. Non poteva stare senza lavoro, così, poiché al cinema lo chiamavano molto poco, negli ultimi anni ha recitato a teatro prima testi di altri adattandoli a se stesso, poi ne ha scritti lui, raccontandosi. Gli dava una linfa vitale, lo faceva anche per questo. Ricordo che, quando veniva una troupe in casa per intervistarlo, si sollevava dal torpore dell’ultimo periodo, si tirava molto su.
Aumentò anche molto di peso, praticamente cercando di superare quella specie di depressione che lo aveva colpito rivolgendosi al cibo. In più aveva il diabete alimentare e non fece nulla per curarsi, fino a essere costretto sulla sedia a rotelle. Cosa gli dicevate? Perché non siete riusciti a, diciamo così, farlo ragionare?
Il cibo lo ha sempre un po’ usato come placatore di ansia. Quando ottenne il Leone d’oro alla Carriera disse: “Da domani mangerò di meno”, ma non fu così. Negli ultimi anni diceva: “Lavoro meno, vedo meno amici, non c’è più sesso, il cibo mi sostituisce tutto”. Decideva sempre di testa sua. Io lo portavo dal diabetologo, ma appena usciti vedeva una pasticceria, entrava e non comprava un bignè, un cioccolatino, comprava una torta che mangiava tutta. Benché fosse una persona molto razionale, era impossibile farlo ragionare su certe cose.
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