Testimone diretta dell’orrore della Shoah, deportata nei campi di sterminio quando aveva solo 13 anni, Edith Steinschreiber, nome d’arte Edith Bruck, ha scritto venti libri, ha composto poesie, ha realizzato reportage per la televisione, sceneggiature per il cinema. A novant’anni continua a portare il suo contributo di memoria nelle scuole, fra gli adolescenti, e solo a causa della pandemia ha interrotto i suoi incontri, contando di poterli riprendere al più presto. Con il suo ultimo libro Il pane perduto, edito da La nave di Teseo, si è classificata al secondo posto al Premio Strega 2021 e ha vinto il Premio Strega Giovani.
Il pane perduto richiama a un episodio che segna il cambiamento definitivo nella sua vita di bambina: i gendarmi arrivano in casa, nel suo villaggio, e costringono la sua famiglia a lasciare la casa in tutta fretta, proprio mentre sua madre aveva messo del pane a lievitare…
Per noi il pane era importante poiché eravamo molto poveri. E la farina ci era stata regalata da una vicina cattolica per la Pasqua ebraica, perché anche nel disastro più grande ci sono gesti umani. Così quel giorno mia madre ha confluito tutto il suo orrore, dolore e terrore su questo pane che aveva dovuto abbandonare in casa, simbolo di cibo primordiale. Come diceva Moravia, tutti i libri sono autobiografici nel senso che ognuno scrive di ciò che ha vissuto, del suo tempo, di quello che conosce. Io ho vissuto anche quel tempo e ormai scrivo dal 1959, o meglio, quell’anno è uscito il mio primo libro.
Cosa le ha consentito la lingua italiana nella scrittura, rispetto alla sua lingua madre?
Mi ha permesso la libertà più totale, mentre l’ungherese, la mia lingua madre, rievocava dei ricordi dolorosi, e ogni parola, come “madre”, ricordava immediatamente la mia infanzia. L’italiano per me è stato libertà, facilità di esprimermi, perché non ha radici profonde come una lingua madre. È un rifugio nel quale mi nascondo e mi sento totalmente libera. L’ungherese non mi avrebbe permesso altrettanto. Avevo anche cominciato a scrivere in ungherese nel 1946, esattamente lo stesso libro che poi ho scritto in italiano, ma l’ho buttato via quando sono fuggita dal mio Paese.
Quale legame sente con l’Italia?
Dopo aver girato a lungo fra campi di transito e vari paesi, quando sono giunta a Napoli è finalmente cominciata la mia vita; è lì che ho iniziato a respirare. Mi sentivo finalmente accolta, vedevo i sorrisi, i panni stesi, tutto quello che avevo intorno mi diceva di restare, anche se non capivo una parola. Mi sono detta che lì avrei potuto vivere, e così è stato.
Poi sono giunta a Roma dove ho incominciato a scrivere sul baule col quale ho viaggiato in mezzo mondo; abitavo in una stanza ammobiliata in Via del Babuino, presso una famiglia che aveva un grande senso dell’accoglienza, anche se l’Italia allora era molto più povera di oggi e con un ricordo vivo della guerra. Questa famiglia che abitava in due stanze divideva il proprio cibo con me, la sera mi invitavano a mangiare la zuppa in cucina seduti insieme. Solo negli anni Sessanta la situazione economica cominciò a migliorare, ma con il benessere la solidarietà ha cominciato a perdersi. Allora avevo iniziato a lavorare in un salone di bellezza, per dodici, tredici ore al giorno, e vedevo quanti soldi si spendevano per il proprio aspetto. In quegli anni conobbi il mio futuro marito (Nelo Risi, ndr) e mi innamorai per sempre. Insomma, l’Italia è stata casa, lingua e famiglia; non quella di origine che non si poteva più ricostruire, ma una nuova.
Nel libro racconta l’esperienza nei campi di concentramento, ma anche il dopo, la condizione di sopravvissuta con una vita da ricostruire: come fu il rientro in una società profondamente cambiata?
Dopo la guerra non c’era ascolto, tutti avevano sofferto, erano poveri e avevano perso qualcosa o qualcuno. Gli stessi familiari dei sopravvissuti – per me due sorelle, una già vedova con un bambino piccolo, l’altra sposata con un uomo benestante, che ci guardava come due straccetti che si erano presentati di fronte alla porta – non sapevano cosa fare. In fondo eravamo un peso per tutti, anche per noi stesse. Avevamo immaginato un paradiso terrestre per quando saremmo tornate: braccia aperte, tutti in ginocchio a chiedere scusa, ma tutto questo non accadde, non c’era nulla. Così è incominciato il nostro peregrinare. L’esperienza dei campi è per sempre, non la dimentichi mai, nemmeno un giorno in tutta la vita. Ma è stata un’università di vita, perché si impara tutto dell’uomo, nel male ma anche nel bene.
Lei dove ha trovato il bene, in mezzo all’orrore?
Impossibile aspettarsi qualcosa di buono lì dentro, poi improvvisamente qualcuno ti chiede come ti chiami e tu capisci che ci sei, che esisti, che hai un nome. Questo rappresenta la speranza, la volontà di lottare, perché in circostanze surreali ci si aggrappa anche a un filo d’erba per vivere, e scopriamo di avere molta più forza di quanta immaginiamo. Anche la povertà è stata un vantaggio nei campi di concentramento.
Ha sempre avuto una grande empatia e un’attenzione per gli “ultimi”, sin da bambina: cosa ha trovato in questa umanità?
Credo che ognuno di noi abbia qualcosa da raccontare. Quando ero piccola, c’erano delle persone che venivano prese in giro e trattate male per la loro condizione, e io mi avvicinavo a loro. Anche da adulta, tanti anni dopo, ho fatto dei servizi per la Tv sugli emarginati, i non amati, e tutti mi hanno sempre detto che era la prima volta che qualcuno si occupava di loro, non si sentivano più diversi nella loro condizione.
Da tanti anni porta la sua testimonianza nelle scuole, parla con i ragazzi, risponde alle loro domande: cosa vede nel loro futuro?
Per il loro futuro i giovani devono conoscere il passato. Io racconto la mia esperienza da sessant’anni ed è un peso terribile, ma sono ripagata da loro della mia fatica. Per me è una missione e una terapia e, nonostante tutto, non so cosa sia l’odio e ringrazio di non saperlo, perché questa è una libertà enorme. In questi anni ho visto generazioni di ragazzi e penso che tanti siano quelli che hanno una coscienza civile e sono impegnati. Solo che di loro non si parla perché a fare notizia non sono mai le cose buone. Forse la pandemia cambierà il mondo del futuro, anche se i vizi dell’uomo tendono a ripresentarsi. C’è ancora molta divisione fra generazioni, i giovani stanno fra loro, e invece dovrebbero parlare con gli anziani e soprattutto ascoltarli. Nel mio libro, La rondine sul termosifone, racconto di mio marito e dell’esperienza con l’Alzheimer: l’ho curato da sola per dieci anni ed è stato uno dei periodi più felici della mia vita perché per lui ero indispensabile. Credo che l’amore sia la migliore medicina.
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