Dalla lotta partigiana al lavoro duro; dallo sport, l’amore per l’arte e l’impegno popolare fino al successo in televisione. La storia dei Marchini, raccontata da Simona, è un variopinto viaggio nel passato, capace di ammaliare chiunque
Personalità estrosa e complessa: nel fantasmagorico territorio dell’arte Simona Marchini rappresenta un caso singolare.
Classe 1941 – chi l’avrebbe mai detto? -, questa incantevole signora laureata in Lettere moderne attraversa da sempre con sorprendente alacrità tutti gli ambiti dello spettacolo. Pur non avendo mai frequentato alcuna accademia. Non a caso, la definizione che dà di sé è la stessa che dà il titolo della sua prima autobiografia, Corpo estraneo, pubblicata di recente dalla casa editrice Baldini+Castoldi.
È attrice, comica, regista, cantante, conduttrice televisiva e gallerista ed ha, tra l’altro, varato e pilotato il “Todi Arte Festival” all’inizio del Millennio, per sette stagioni ininterrotte.
Parallelamente percorre i binari della solidarietà con ferrea determinazione: è ambasciatrice Unicef da trentacinque anni.
È figlia di Alvaro Marchini, comandante partigiano insignito della medaglia d’argento al valor militare, imprenditore edile con il “vizio” del collezionismo e presidente della AS Roma negli anni Settanta.
Sin da bambina ha assimilato (e condiviso) le passioni e le attività inebrianti di famiglia.
Si è esibita per la prima volta davanti al pubblico all’età di quattro anni. «Mio padre creò un teatro in un magazzino – ci racconta – per la gente del nostro quartiere, Monteverde Vecchio. Fu lui stesso il protagonista della prima pièce, La questione russa di Konstantin Simonov. Alla prima ci fu un problema tecnico. Il pubblico impaziente mormorava. Papà mi disse: “Vai a dire una poesia”. Uscii dal sipario come se fosse la cosa più normale del mondo. Si levarono brusii di sgomento. Conoscevo a memoria tredici poesie di Trilussa. Scelsi Er porco. Recitai la storia del maiale che va in città col frac per introdursi nella buona società, ma capisce presto che è più pulito il suo porcile».
E come andò?
Fui sommersa dagli applausi. Papà dovette strapparmi dal palco.
La scuola, l’università, le nozze blasonate a 19 anni con Ernesto Palopoli, la maternità, la laurea, il divorzio, il nuovo matrimonio con Ciccio Cordova, il capitano della Roma e, infine, la carriera di attrice. Cominciata, per caso.
Ero in vacanza a Cortina. In albergo conobbi Delia Scala e Don Lurio. Cominciammo a passare le serate insieme. Raccontai loro i miei due matrimoni, giocandoci su. Al ritorno a Roma, mi convocò la Rai. Era stato Don. Sconvolta, gli diedi del pazzo. Lui rispose con il suo tipico accento italo-americano: “Tu deve fare, tu ha talento”. Mi accompagnò al provino. Lo vide per caso anche Renzo Arbore. Quarantotto ore dopo firmai il contratto per la parte di Iside Martufoni, di professione passeggiatrice che lungo il Raccordo Anulare tiene la posta del cuore, nel varietà A tutto gag diretto da Romolo Siena. Il successo fu incredibile.
Iside è entrata nell’immaginario storico televisivo. E oggi è ricercata nel web dai nostalgici e dai nati dopo gli Ottanta. Al pari della telefonista di Quelli della notte, il programma di Arbore che tenne sveglia l’Italia intera per un mese. Che esperienza fu per lei?
Una splendida follia. Renzo Arbore ha una straordinaria capacità di scegliere e di valorizzare i talenti di cui si circonda, di creare uno spirito di divertimento collettivo. Tutto inedito, ogni sera era una novità, senza prove. Il personaggio di “Signora mia, guardi” nacque proprio così, improvvisando. Una donna dedita alla famiglia, una che reggeva la casa e un complicato sistema di affetti, le cui uniche finestre sul mondo erano i giornaletti di gossip. Ebbe un tale successo… c’era da montarsi la testa.
Fra trionfi televisivi quali Pronto, è la Rai? e Piacere Rai Uno, presenze radiofoniche e una notevole filmografia, lei volle altresì riaprire la galleria capitolina La Nuova Pesa che fu di suo padre, poco dopo la sua scomparsa…
La Nuova Pesa è sempre stata un punto fermo nella mia vita e nelle vicende della mia famiglia. Un luogo di grande fermento culturale e vivacità. Ricordo una cena, io quindicenne, seduta a fianco di Chagall. Le partite a scopone con Corrado Cagli. Le inaugurazioni affollate da intellettuali, registi, attori: Pasolini, Elsa Morante, Anna Magnani, Mastroianni, Petri. Un pomeriggio arrivò a sorpresa Burt Lancaster e si portò via sotto i miei occhi increduli un Guttuso per Luchino Visconti. Eventi epocali come l’ultima mostra a Roma di Gino De Dominicis, quella di Jannis Kounellis, esponente dell’Arte Povera e quella di Rebecca Horn, famosa per le sue estensioni anatomiche, come unicorni e matite che fuoriescono dalla faccia. Quanta storia in oltre trent’anni!
Lei ha espresso il suo talento anche nella regia lirica e dell’opera è una fervida divulgatrice. Ce ne vuole parlare?
Sì. Ho avuto l’opportunità di dirigere come regista più di un’opera seguendo il mio gusto, rivolto soprattutto all’eleganza della recitazione, al Todi Arte Festival e non solo. Titoli classici: Traviata, Tosca, Madame Butterfly… e novità.
Può citarne una?
Certo. La Paura, dedicata alla Grande Guerra, tratta da un testo di Federico De Roberto sulla vita in trincea. Venne presentata nel 2015 in occasione delle celebrazioni per il centenario del primo conflitto mondale al Teatro Coccia di Novara. Si emozionarono tutti, a cominciare dai ragazzi che avevano partecipato come comparse allo spettacolo. Ho molto a cuore i giovani. La vera crescita interiore è culturale. L’attività (ri)creatrice è un valore da difendere. Una necessità. I più grandi pedagogisti ne ribadiscono l’importanza. Ragazzi e ragazze vivono oggi una realtà inaridita fatta solo di cose; cose da possedere, cose da usare, cose da consumare. Passano malamente il loro tempo attaccati ad uno schermo sottraendolo alla creazione, agli incontri e alle emozioni. Ai libri, al teatro, alla musica, al canto. Non si rendono conto di essere strumentalizzati dalla pubblicità o dall’influencer di turno… ma non voglio fare la predicatrice.
Si è appena conclusa la tournée di Mine vaganti, trasposizione teatrale dell’omonimo film di Ferzan Ozpetek. A lei l’impervio ruolo della nonna, interpretata nella versione cinematografica da Ilaria Occhini…
Ho accettato di recitare proprio perché mi è stato affidato il ruolo della nonna. La nonna è la colonna portante di questa famiglia “minata”. È un personaggio incisivo, eppure tenero e struggente. È diabetica e si suicida mangiando vassoi e vassoi di dolci fino a morirne.
Lei ha un nipote, Shane, studente di Economia in una università americana. Che nonna è?
Una nonna innamorata, ma non “accecata”.
E i suoi, di nonni?
Indimenticabili. Mio nonno materno Vincenzo amava la pittura, l’opera lirica ed aveva la capacità di costruire meravigliosi presepi con tanto di luci e cascatelle. Mi insegnò a dipingere nature morte. Di solito si trattava di una bottiglia o un vaso affiancato da un’arancia o una mela o mazzi di fiori variopinti. Aveva trenta canarini e litigava sempre con nonna Ermelinda per via delle gabbie da pulire.
Il nonno Marchini, Sandro, incuteva soggezione. A diciott’anni dovette emigrare in Svizzera perché era il primo di cinque fratelli e c’era la miseria. Racimolato un bel gruzzolo, tornò a Moiano, una piccola frazione di Città della Pieve. Costruì la Casa del Popolo per educare i compaesani alla lettura, alla scrittura, al teatro e alla coscienza sociale, ma sotto il fascismo dovette lasciare il paesello. Si trasferì a Roma con nonna Giulia e i figli. Cominciò a costruire. Durante l’estate portava i figli adolescenti con sé a lavorare come muratori. È così che fecero fortuna i Marchini, lavorando duramente. Sono grata alla mia famiglia e alla vita per i doni che mi ha dato.
I MARCHINI IN MOSTRA
Una storia nell’arte. I Marchini tra impegno e passione celebra con il dovuto risalto una dinastia familiare paradigmatica, con il culto della bellezza e un ruolo di tutto rispetto nelle cronache dell’Arte del Novecento fino ad oggi.A cura di Fabio Benzi, Arnaldo Colasanti, Flavia Matitti, Italo Tomassoni e con il coordinamento di Gianni Dessì, la mostra – già presentata nella prestigiosissima Accademia Nazionale di San Luca a Roma – è ora in corso al Ciac (Centro Italiano di Arte Contemporanea) di Foligno, fino al prossimo 20 agosto.
Visibili oltre 130 opere di 77 artisti. Quali? Balla, Giorgio de Chirico, Picasso, Braque, Léger, Magritte, Otto Dix, Antonietta Raphaël, Guttuso, Licini, Vespignani, Carlo Levi, Kounellis, Carla Accardi, Marco Lodola. Tutti passati nel corso dei decenni nella galleria La Nuova Pesa, aperta nel ‘59 nella Capitale dall’imprenditore Alvaro Marchini e dal 1985 gestita dalla figlia Simona.
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