Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, è una personalità poliedrica: autore televisivo, regista, scrittore, attore e sceneggiatore. Palermitano, celebre il suo programma cult Il testimone per Mtv, conosciuto dal grande pubblico per essere un inviato de Le Iene, fa il suo esordio al cinema dirigendo La mafia uccide solo d’estate (2013), che ottiene un buon successo di pubblico e critica, a cui seguiranno altre due pellicole come regista. La quarta edizione del concorso Corti di Lunga Vita lo vedrà come Presidente di Giuria; lo abbiamo incontrato per una chiacchierata.
Il nostro è un Concorso di cortometraggi rivolto a professionisti e non, come si sente nel ruolo di Presidente di Giuria? E cosa si aspetta dalle opere in gara?
Mi è già capitato una volta di ricoprire questo ruolo, di fare da arbitro, mediatore: è sempre difficile giudicare il lavoro delle persone, però farlo ogni tanto mi diverte. Dal punto di vista tecnologico, ormai si può fare un buon lavoro anche con pochi mezzi. Sono curioso di vedere che cosa ha influenzato le opere dal punto di vista creativo, soprattutto dopo questa esperienza del lockdown. La creatività viene stimolata in situazioni estreme, costringe a raccogliere le idee per soccombere alla povertà dei mezzi.
A differenza dei lungometraggi, i corti hanno il potere di raccontare una storia in pochi minuti. Quali sono, secondo lei, gli elementi chiave per realizzare un corto che funzioni? E quali gli errori da non commettere?
Per quel che riguarda i gusti, sono molto pop. I tempi lenti, se non sono giustificati, mi annoiano. Un cortometraggio non deve annoiarmi, è molto importante quando ti concedo 7 minuti della mia vita da spettatore. Come autore ho sempre fatto fatica a rapportarmi al cortometraggio. Non è facile realizzare qualcosa considerando una durata di pochi minuti. È come se il corto finisse quando sto ancora prendendo la rincorsa! Recentemente ne ho visti anche di molto belli: dal punto di vista qualitativo le cose si sono evolute e la tecnologia ha dei costi più bassi.
Appassionato di cinema fin da piccolo: autore, regista e attore. La sua passione nasce grazie a suo padre che girava documentari per la Rai a Palermo. Quando ha capito di volerne fare una professione? E quali sono i film che hanno influenzato il suo lavoro?
Cosa sarebbe successo se mio padre non avesse fatto questo lavoro, se l’avessi fatto pure io, non lo saprò mai. Mi sembrava di capire tutto subito. A scuola andavo molto male e invece con il cinema ho intuito subito come funzionava la macchina da presa. I registi che guardo con interesse sono numerosi, non ne ho uno di riferimento. Mi viene in mente Steven Spielberg, che è stato molto stimolante. Di per sé non sono un suo fan, né della fantascienza. Mi piace molto il suo immaginario. Quando l’ho incontrato e intervistato, mi ha colpito il suo lato infantile che viene fuori, nonostante i 70 anni. È uno tra quei registi che ricordo con affetto, che con il suo lavoro sembrava incoraggiarmi ad andare avanti.
È stato per diverso tempo assistente di Franco Zeffirelli e di Marco Tullio Giordana. Cosa le hanno insegnato queste grandi personalità?
Di Zeffirelli, ormai l’ho confessato più volte, ero l’assistente del cane. Si trattava più della possibilità di stare accanto a l’ultimo di una generazione di cineasti internazionali. Non si fermava certo a spiegarmi le cose, ma anche solo vederlo all’opera serviva a farmi un’idea di come funzionava il set (il film era Un tè con Mussolini). Zeffirelli, dopo cena, davanti a un bicchiere di vino, iniziava a raccontarti di Pasolini, di Anna Magnani, di Richard Burton o Liz Taylor, di un mondo che ormai non c’era più. È stato istruttivo anche solo vedere all’opera delle attrici internazionali pazzesche, questo incrocio tra cinema italiano e internazionale. Sul film di Giordana, I Cento Passi, trattandosi di una produzione piccola, ero molto più operativo. Nessuno sapeva però che sarebbe diventato un film importante, è partito in sordina, ma di fatto ha smosso le acque. In pochi, fuori Palermo, conoscevano la storia di Peppino Impastato. Ed è stato bello vantarsi di esserci stato.
Il suo ultimo film, E noi come stronzi rimanemmo a guardare, racconta la storia di un ex manager che perde il lavoro e si adatta a fare il rider; la sua unica consolazione sarà il rapporto con Stella, un ologramma creato da una App di “anime gemelle”. In uno scenario come questo, tra solitudine e l’impalpabilità dei rapporti in un mondo iperconnesso, che importanza ha un gesto come l’abbraccio?
Una volta era meno importante. Il film è stato scritto prima dell’arrivo del Covid e nella vita non avrei mai pensato di dire “vivremo una pandemia” o “la Russia ha invaso l’Ucraina”. La solitudine nel film è causata dalla tecnologia. La pellicola però esce dopo il primo lockdown, e quella solitudine che doveva essere straniante, per il pubblico era diventata quasi familiare. Di conseguenza l’abbraccio diventa importante. Mi è dispiaciuto tantissimo che non sia uscito al cinema, che la gente non sia andata in sala a vederlo, anche se è andato benissimo, ha fatto dei numeri che altrimenti non avrebbe mai fatto.
Dopo aver scritto libri, programmi tv, diretto 3 film, fatto l’attore… quale altro progetto vorrebbe realizzare?
La mia scommessa – e con quest’ultimo film ci stavo quasi riuscendo – è quella di continuare a fare commedie, di uscire dal confine italiano e continuare a frequentare il mondo dei festival cinematografici. Realizzare un film che possa essere capito all’estero e passare i pregiudizi che spesso i festival hanno nei confronti della commedia.
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