Le Olimpiadi 50&Più (15-23 settembre 2018 San Vincenzo – LI) vivranno un’edizione speciale.
Paola Pigni, mamma e nonna, è ancora oggi la stessa donna determinata che nel 1969 riuscì nella notturna di Milano a stabilire il record mondiale dei 1.500 mt (4:12.4) superando l’olandese Maria Gommers. Paola Pigni è stata la prima atleta italiana a spingersi oltre gli 800 mt ed abbattere il muro del pregiudizio che, a differenza degli uomini, considerava le donne non in grado di sostenere le lunghe distanze. Prima, però, di ricordare le fatiche dei suoi successi, c’è qualcosa che le preme dire: «Vorrei salutare tutti gli over 50 e lanciare un messaggio: abbiamo un importante ruolo in questa società, prima di tutto quello storico e di testimonianza, perché senza un passato non ci può essere un futuro. Non penso che “anziano” significhi inutile. Ci sono anziani che hanno grandi capacità ed energia intellettuale. Non bisogna fare una gara tra giovani e meno giovani. In ambito lavorativo è stato dimostrato che la combinazione e collaborazione tra i giovani e le persone mature genera grandissimi risultati sulla produttività. Dico a tutti i nonni che non dobbiamo “sentirci”, ma che siamo». Riguardo poi l’attività fisica, suggerisce: «Alla nostra età non dobbiamo aspirare a un risultato assoluto, ma personale, secondo le proprie possibilità. Soprattutto, l’attività fisica deve essere un momento di rilassamento e di divertimento. Se non si hanno problemi di salute, non si hanno dolori, l’importante è non fermarsi e andare avanti facendo quello che piace».
Come si mantiene in forma?
Ho un problema a un ginocchio, quindi la sera faccio una camminata sul tapis roulant, addominali e ginnastica. Leggo anche molti libri e ascolto la radio. Tutto questo mi rilassa e mi aiuta ad affrontare le problematiche della vita.
Come ha fatto a farsi strada nel mezzofondo, specialità dominata dagli uomini?
Grazie all’educazione scolastica ricevuta: sono nata a Milano, dove ho frequentato la scuola tedesca. Esisteva solo l’essere umano e le opportunità. Sono stata la prima a fare i 1.500, i 3.000, i 5.000. Dicevo che nessuno doveva impedirmi niente. E lo penso ancora.
Come si allenava?
Ho iniziato a correre per le strade di Milano, la gente mi prendeva in giro. Poi non ho avuto una vita facile. Mio padre è morto quando avevo 23 anni, per aiutare mia madre ho iniziato a lavorare. Mi allenavo alle cinque del mattino, poi andavo a lavorare, non mangiavo, la sera tornavo ad allenarmi. Diventavo sempre più forte e ho trovato chi credeva in me. I record prima o poi vengono battuti, ma l’unica cosa irripetibile è essere i primi a fare qualcosa. Significa aprire una strada, essere uno “scopritore”. Questo non me lo può togliere più nessuno.
Dagli atleti ha ricevuto incoraggiamento?
Mi allenavo con gli uomini. Mi allenava mio marito (Bruno Cacchi, ndr). Correvo per le strade di Milano, con una nebbia e un freddo pazzeschi.
Dopo le Olimpiadi del ’68 partecipò a quelle di Monaco del 1972, funestate dall’attentato palestinese.
Fu una tragedia. Da quell’Olimpiade è cambiato tutto riguardo alla sicurezza, divenuta ormai predominante. Una tristezza. Ma è la realtà dei nostri tempi e occorre essere pragmatici.
Parliamo del bronzo che vinse proprio in quelle Olimpiadi.
Quella medaglia fu un furto che mi fecero. Chi era davanti a me era drogato fin sopra ai capelli: Russia e Germania dell’Est. Poi si scoprì che fu un doping di Stato. Molte atlete hanno pagato con gravissime malattie, con situazioni personali e umane terribili.
Comunque, è stata “ripagata” da tutti i record che ha conquistato, sul miglio, sui 1.500, sui 3.000…
No, affatto: io, come tanti atleti, ci siamo ammazzati di fatica per giocare pulito. Io correvo 45 km tutti i giorni, sono stata incredibilmente brava in quell’Olimpiade (con 4:02.85 si piazzò a un soffio dalle prime due, ndr). Il brutto è il messaggio che si manda. Purtroppo il doping non sarà mai sconfitto. È una pura illusione. Davanti ai soldi si fa di tutto. Comunque, poi la storia ci ha dato ragione.
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