L’Istituto, con il XXI Rapporto annuale, lancia l’allerta sul fenomeno della povertà pensionistica: “Chi è povero lavorativamente oggi, sarà un povero pensionisticamente domani”. Un fenomeno che si intreccia con il divario di genere, l’inflazione, la sostenibilità e il cantiere infinito della riforma del sistema pensionistico.
Nel 2021, 4 pensionati su 10 (40%) hanno percepito un reddito da pensione lordo inferiore ai 12mila euro. La maggior parte della metà più povera, con un reddito lordo annuo inferiore ai 10mila euro, percepisce una pensione di vecchiaia o anticipata dal Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti. Prima di essere pensionati poveri, queste persone sono state lavoratori poveri. Ad approfondire le condizioni dei pensionati italiani attuali, le prospettive per chi uscirà dal mondo del lavoro domani e la sostenibilità del sistema è l’Inps nel XXI Rapporto annuale.
In Italia 16 milioni di pensionati. Oltre la metà della spesa per pensioni di anzianità o anticipate
Sono circa 16 milioni i pensionati italiani al 31 dicembre 2021. Sono 8,3 milioni di donne e 7,7 milioni di uomini. Le pensioni lorde erogate lo scorso anno ammontano complessivamente a 312 miliardi di euro. Quasi tutti i pensionati (97% circa) percepiscono almeno una prestazione dall’Inps e hanno un reddito lordo mensile medio di circa 1.640 euro. Il restante 3% non beneficia di nessuna prestazione da parte dell’Istituto. Percepisce rendite Inail o pensioni di guerra o ancora pensioni da Casse professionali, Fondi pensione ed altri enti minori.
Il numero dei pensionati si è stabilizzato negli ultimi cinque anni, dopo la flessione iniziata nel 2008 con le riforme avviate negli Anni ’90. Nel decennio 2012-2021, questa flessione ha determinato un risparmio teorico medio annuo di circa 11 miliardi di euro.
I trattamenti previdenziali (pensioni di anzianità/anticipate, vecchiaia, invalidità e superstite) rappresentano il 92% della spesa; mentre quelli assistenziali (prestazioni agli invalidi civili, pensioni e assegni sociali) il restante 8%. La voce che incide di più sulla spesa sono le pensioni di anzianità/anticipate (56% del totale), seguite dalle pensioni di vecchiaia (18%) e dalle pensioni ai superstiti (14%). In fondo alla classifica le pensioni di invalidità e le pensioni e assegni sociali, che rappresentano rispettivamente il 4% e il 2%.
Gli importi degli assegni
Le pensioni di anzianità/anticipate rimangono quelle di importo più elevato, 1.989 euro mensili in media rispetto ai 1.061 euro di quelle di vecchiaia e agli 800 euro di quelle di invalidità e ai superstiti. Gli importi medi delle prestazioni assistenziali sono più bassi, e si attestano intorno ai 470 euro mensili.
In termini di spesa, nel complesso gli importi medi mensili sono diminuiti del 5%. Ma se si guarda agli ultimi 20 anni, l’importo medio lordo annuo dei trattamenti pensionistici è cresciuto in media del 2,9% all’anno. Un incremento dovuto soprattutto all’attuazione delle riforme che hanno allungato la vita lavorativa.
In venti anni, il divario di genere pensionistico è raddoppiato
Sebbene le donne rappresentino il 52% sul totale dei pensionati, percepiscono solo il 44% dei redditi pensionistici. L’importo medio mensile dei redditi percepiti dagli uomini è 1.884 euro lordi, del 37% superiore a quello delle donne, pari a 1.374 euro. In termini di importi, il divario di genere è cresciuto costantemente da 3.900 euro nel 2001 a 6.100 euro nel 2021.
Le pensionate, infatti, si concentrano nelle fasce di reddito pensionistico più basso, tanto che chi guadagna oltre 3mila euro di pensione è per il 70% maschio. D’altra parte, i pensionati percepiscono nel 50% dei casi le pensioni anticipate, che sono quelle di importo medio più elevato; mentre le donne prevalgono nella pensione ai superstiti e di vecchiaia.
Secondo l’Inps, le cause del divario di genere pensionistico sono riconducibili ad almeno 3 fattori. Il primo è la diversa retribuzione oraria dovuta al numero superiore di contratti a tempo determinato o part-time fra le lavoratrici, che determina una differenza di stipendio anche superiore al 30%. Di conseguenza, impattano i tempi di lavoro: i maschi lavorano in media 300 ore più delle femmine, in parte, ma non solo, a causa della diversa diffusione di contratti con orario part-time. Infine, l’anzianità contributiva legata alla continuità delle carriere: nel 2021 le pensionate hanno ancora quasi 350 settimane di contribuzione in meno rispetto ai maschi in media. Il lato positivo è che il divario in termini di anzianità contributiva si è visibilmente ridotto nel tempo. Le settimane di contribuzione delle pensionate più giovani – osserva l’Inps – superano dell’80% le settimane delle più anziane, ma la differenza rispetto agli uomini resta significativa.
Le pensioni italiane sono capaci di fronteggiare l’inflazione?
Quest’anno il tasso di inflazione arriverà a segnare un +8%. “Un dato che non si registrava dalla metà degli Anni ’80 e che potrà avere un impatto importante sulla spesa pensionistica a partire dal 2023”, osserva nella sua Relazione il Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico. L’Inps stima un aumento della spesa pensionistica di 24 miliardi di euro.
Quanto le pensioni italiane sono capaci di fronteggiare l’aumento del costo della vita? Lo calcola l’Inps attraverso il tasso di sostituzione, che misura la capacità del sistema di previdenza di fornire un reddito pensionistico in sostituzione di quello da lavoro. Tra coloro che si sono ritirati dal mercato del lavoro dopo il 2017 – spiega l’Istituto- , il tasso di sostituzione risulta pari, in media, al 75% della retribuzione massima ricevuta negli ultimi 10 anni di attività. Anche se, rispetto agli altri Paesi dell’UE, si tratta di un valore relativamente elevato (stanno peggio solo Grecia, Spagna e Portogallo), emergono alcune differenze significative se si guarda alle diverse componenti dell’universo pensionistico.
Innanzitutto, il tasso di sostituzione medio dei maschi è di 2 punti percentuali superiore a quello delle femmine. Poi, i pensionati più poveri hanno un tasso di sostituzione inferiore in media al 55%, mentre i più ricchi arrivano all’86%. Questo accade per “retribuzioni particolarmente basse negli anni immediatamente precedenti al pensionamento – sottolinea l’Istituto -, legate a orari ridotti, part-time e contratti a tempo determinato che il lavoratore ha presumibilmente accettato in attesa di maturare i requisiti per la pensione”.
A parità di anzianità contributiva, il tasso di sostituzione è maggiore per le pensioni di vecchiaia, che hanno importi mediamente più bassi delle anticipate, ma la differenza decresce al crescere dell’anzianità contributiva, e scompare quando la contribuzione supera i 50 anni.
La povertà pensionistica
Come abbiamo anticipato, il Rapporto annuale Inps 2022 mette in allerta, in particolare, sul fenomeno della povertà pensionistica. “Un’ulteriore ragione che induce a preoccuparsi del fenomeno della povertà lavorativa di oggi – scrive nella sua Relazione il Presidente Tridico – è il fatto che chi è povero lavorativamente oggi sarà un povero pensionisticamente domani”.
Nel 2021, dunque, ben il 40% dei pensionati ha percepito un reddito pensionistico lordo inferiore ai 12.000 euro. Da un’analisi del 20% più povero tra i pensionati (fino a 10.000 euro annui) emerge che solo il 15% dei pensionati in questa fascia riceve un assegno sociale e il 26% una pensione ai superstiti. Mentre quasi il 60% percepisce una pensione di vecchiaia o anticipata dal Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti: dunque, le pensioni povere riflettono retribuzioni povere.
La disuguaglianza è massima tra le pensioni di vecchiaia dei lavoratori dipendenti del privato (soprattutto maschi), presumibilmente per la grande variabilità della loro anzianità contributiva. Ma, anche sul fronte della povertà pensionistica, sono le donne ancora una volta le più penalizzate: “hanno avuto un allungamento della vita lavorativa per allinearla a quella degli uomini – spiega ancora il Presidente dell’Inps -, andando in pensione più tardi di quanto si aspettassero al momento in cui entrarono nel mercato, pur avendo lavorato meno a lungo e tipicamente meno ore, ad una paga oraria/settimanale inferiore a quella degli uomini”.
“Il problema dei futuri pensionati poveri si intreccia già oggi con il problema della sostenibilità del sistema pensionistico nel medio periodo. La struttura demografica della popolazione italiana – sottolinea Tridico – ci mostra come l’onda dei baby boomers stia arrivando alla pensione e come, per contro, la base contributiva si stia restringendo. Quand’anche le politiche di contrasto alla denatalità risultassero efficaci, i benefici di nuovi contribuenti che entrano nel mercato del lavoro si verificheranno tra 20-25 anni. Occorre intervenire più tempestivamente sulle contribuzioni correnti”.
L’impatto del salario minimo sulle pensioni della “Generazione X”
Cosa succederebbe alle pensioni se venisse introdotto il salario minimo? Il Rapporto Inps dedica all’ipotesi una simulazione, ricostruendo le contribuzioni accumulate nei primi 15 anni di carriera lavorativa dalla “Generazione X” nata tra il 1965 e il 1980, alla quale si applica esclusivamente il sistema contributivo. “Una parte di loro – spiega il Presidente dell’Inps – non è riuscita a guadagnare retribuzioni superiori a quello che equivarrebbe oggi ad un salario minimo di 9 euro lordi orari. Se si introducesse un tale salario minimo, i loro profili contributivi si alzerebbero significativamente, in media del 10%”.
Cantiere pensioni: le tre proposte Inps per la riforma
L’Inps torna anche sul cantiere infinito della riforma della pensioni, proponendo tre ipotesi e stimando il costo degli interventi per il triennio 2023-2035. L’impatto delle misure si esaurirebbe infatti nell’arco di poco più di un decennio, quando il sistema contributivo andrà definitivamente a regime per tutti.
La prima ipotesi è quella dell’ “opzione al calcolo contributivo”. Si permette ai lavoratori che ancora rientrano in parte nel sistema retributivo l’uscita anticipata con 64 anni di età e almeno 35 di anzianità contributiva. Questo a condizione di aver maturato un importo della pensione pari ad almeno 2,2 volte l’assegno sociale. La proposta prevede il calcolo dell’intera pensione secondo il metodo contributivo. Per i lavoratori appartenenti al sistema contributivo puro, invece, si prevede la riduzione della soglia da 2,8 a 2,2 volte l’assegno sociale. L’intervento varrebbe 5,9 miliardi di euro.
Con il “calcolo con penalizzazione”, invece, la differenza rispetto alla prima ipotesi sarebbe il meccanismo di ricalcolo della quota retributiva della pensione. La quota verrebbe ridotta all’incirca del 3% per ogni anno di anticipo rispetto all’età di vecchiaia. Costo: 6,7 miliardi.
Terza ipotesi, l’ “anticipo della quota contributiva della pensione”: si permette ai lavoratori non appartenenti al sistema contributivo puro l’anticipo pensionistico della sola quota di pensione contributiva al raggiungimento dei 63 anni di età e 20 anni di contribuzione e un importo della quota di pensione contributiva superiore a 1,2 volte l’assegno sociale. Al raggiungimento dei requisiti di vecchiaia, al lavoratore verrebbe riconosciuta anche la quota retributiva della pensione. La spesa sarebbe, secondo le previsioni Inps, di meno di 4 miliardi.
L’incidenza di spesa previdenziale e assistenziale e gli scenari (pessimistici) per il futuro
Secondo i calcoli Inps, l’incidenza sul PIL della spesa previdenziale italiana è stato pari al 16,9% nel 2020. Si scende al 15,8% se si sottraggono dalla spesa pensionistica i soli trattamenti strettamente assistenziali (tra cui assegni sociali e invalidità civili); al 16% se si sottraggono dalla spesa pensionistica tutte le prestazioni means-tested (quelle che richiedono una valutazione pubblica della situazione economica di chi richiede assistenza); al 13,4% se si considera la spesa pensionistica al netto delle ritenute fiscali.
Sulla base delle ipotesi e delle elaborazioni effettuate dall’Istituto, nel 2029 il patrimonio netto dell’Istituto sarà negativo per oltre 92 miliardi di euro. “La causa principale dello squilibrio del sistema pensionistico – sottolinea l’Inps -, da un lato, è riconducibile alla dinamica demografica e all’allungamento della speranza di vita, solo parzialmente attenuato dall’inasprimento negli ultimi venti anni dei requisiti per l’accesso alle prestazioni pensionistiche di vecchiaia e di anzianità; dall’altro, è dovuto all’elevato stock di spesa pensionistica determinata negli anni da regole di accesso alla pensione e di calcolo dell’assegno molto generose, indipendenti dalla contribuzione e dalla prevedibile durata di erogazione della rendita”.
“La lunga stagione di riforme iniziata trenta anni fa ha contribuito in misura rilevante a contenere gli squilibri del sistema – aggiunge l’Inps -; ma solo migliorando i modelli di produzione del reddito si potrà garantire il patto intergenerazionale e adeguati livelli di finanziamento dello stato sociale”.
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