Il diffondersi di notizie non verificate sul web pone il problema della regolamentazione. Ma è giusto ipotizzare la censura come soluzione?
Nel corso dell’ultimo anno abbiamo assistito, forse come mai prima, al fenomeno della infodemia, la diffusione straordinaria ed eccessiva di informazioni, spesso non verificate o palesemente false, che ha reso difficile a molti trovare fonti attendibili per documentarsi. Le conseguenze sono state diverse, dalla sottovalutazione del rischio contagio da Covid fino all’estremo opposto, alla paura incontrollata. In entrambi i casi i comportamenti sono stati orientati – male – sulla base delle più disparate teorie spacciate per verità.
Il fenomeno ha suscitato un vivace dibattito sull’opportunità di regolamentare i contenuti della rete, e puntualmente si è anche tornati a parlare di censura. Non solo in relazione alla comunicazione della pandemia ma, più in generale, come soluzione possibile di fronte a contenuti ritenuti pericolosi: il caso Trump, che dopo gli scontri di Capitol Hill si è visto bloccare gli account social, ne è l’esempio più clamoroso. «Come conseguenza alla situazione violenta senza precedenti a Washington – avevano scritto da Twitter – abbiamo chiesto la rimozione di tre tweet di Donald Trump, che sono stati postati ma che violano le nostre policy sulla Civic Integrity. Le future violazioni delle regole, comprese quelle delle nostre policy o che comprendono minacce violente, comporteranno la sospensione permanente dell’account».
Poche ore dopo è arrivata una decisione analoga da parte di Facebook e poi di YouTube, che dell’ex presidente Usa ha rimosso anche il video in cui denunciava i presunti brogli elettorali. Ma oscurare un profilo può essere la soluzione? Quali altre strade ci sono? 50&Più ne ha parlato con Ruben Razzante, docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano e alla Lumsa di Roma, e curatore del portale www.dirittodellinformazione.it, che ha fatto parte della task force del Governo sulle fake news.
Professor Razzante, quali sono i rischi della diffusione incontrollata di fake news e informazioni e notizie non verificate? E quale lavoro è stato fatto dalla task force?
I rischi sono quelli che stiamo vivendo, ossia che la gente si comporti in modo sbagliato a fronte di notizie non verificate che circolano in modo virale e rischiano di disinformare. Ho fatto parte della task force istituita dal Governo precedente, che si è occupata di contrasto alle fake news sui social e sul web a proposito del Covid-19. In quel lavoro, che è ancora disponibile online sul sito di Palazzo Chigi per l’informazione e l’editoria, abbiamo messo in evidenza questi rischi e proposto – a lungo e invano – di mettere in campo una serie di azioni, in particolare unificare i flussi informativi sul Covid, creare un unico polo per le domande più frequenti e fare azioni di sensibilizzazione anche sui canali YouTube per intercettare i giovani, perché non ci sono campagne efficaci per loro. Le fake news a volte sono volute, a volte sono figlie della superficialità, di una scarsa conoscenza degli argomenti, che vengono affrontati senza i dovuti approfondimenti. Ciascuno di noi può essere impegnato in prima persona contro le fake news per smascherare quelle più palesi, che citano ricerche inesistenti, o nelle quali viene travisato il contenuto di queste ricerche. E attenzione alle date dei link, che spesso sono superati dalla realtà. Si tratta di fare più discernimento dei contenuti che riceviamo online, perché molti di questi sono fonte di disinformazione e possiamo riconoscerli; il problema è che tanti non si informano o credono di sapere già tutto.
Come si può coniugare la libertà di espressione con la libera diffusione di contenuti, a volte anche pericolosi?
Si può e si deve: bisogna trovare un equilibrio fra la libertà di espressione e la responsabilità di chi si esprime, rispetto alla tutela dei diritti della personalità, dei diritti e della reputazione degli Stati, dei diritti umani. Questo equilibrio si ottiene mettendo delle regole e istituendo delle autority sovranazionali che le facciano rispettare, perché l’anarchia non porta a nulla di buono. I colossi del web hanno manifestato buona volontà negli ultimi due anni nell’impegnarsi a tutelare i diritti degli utenti, ma in alcuni casi – come quello di Trump – hanno potuto fare quello che hanno fatto proprio perché non ci sono vere e proprie disposizioni dal punto di vista strettamente giuridico. Se il presidente degli Stati Uniti, che è uno dei soggetti più importanti al mondo, può essere censurato per quello che dice, fosse anche un’affermazione pesante come quella che ha fatto, c’è un problema di democrazia. Perché si tratta comunque di un soggetto eletto che ha preso milioni di voti, e che se dice qualcosa di sbagliato va combattuto sul terreno della dialettica politica, smascherato per l’inattendibilità delle sue proposte ma non va censurato. Il tema è che la censura finisce per violare un bene sacro e supremo che è la libertà di espressione.
Si può affidare a piattaforme private la regolamentazione dei contenuti?
Non si può affidare ad una piattaforma privata la garanzia del rispetto della libertà di espressione. Da questo punto di vista trovo che la decisione Trump sia sbagliata e che rappresenti un pericoloso precedente. Bisogna mettere delle regole, anche se io non sono per demonizzare i colossi del web, anzi. Nel mio ultimo libro La rete che vorrei. Per un web al servizio di cittadini e imprese dopo il Covid-19, edito da Franco Angeli, ho coinvolto Amazon, Ali Baba, Facebook, Google, che hanno raccontato cosa hanno fatto per favorire i diritti degli utenti durante la pandemia. Insomma, sono favorevole a una filiera allargata di produzione e distribuzione dei contenuti dove ci siano regole precise e dove anche queste realtà diano un contribuito al rispetto di queste regole.
C’è un limite nella libertà di informazione?
Oggi abbiamo più opportunità di comunicare, ma proprio per questa overdose informativa, la sfida è valorizzare l’informazione di qualità, e far sì che sia riconoscibile anche in rete. Trovo importante che i limiti se li diano gli operatori stessi, cioè che la deontologia, le forme di autodisciplina e autoregolamentazione siano sempre più sviluppate perché chiunque deve darsi delle regole quando scrive sui social, che si tratti di giornalisti, operatori della comunicazione ma anche di utenti. Per impedire l’anarchia, il limite va posto fra libertà e responsabilità, nella garanzia del rispetto delle regole.
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