Il personale sanitario italiano è candidato al Premio Nobel per la Pace 2021, quale riconoscimento degli sforzi fatti nell’ultimo anno. Si parla di circa 350.000 infermieri che si sono spesi per combattere contro il Covid-19. In occasione della Giornata Internazionale a loro dedicata, abbiamo intervistato quattro infermiere over 50 per conoscere le storie di questo periodo difficile.
Il Covid raccontato dagli infermieri
«Io mi sento fortunata perché credo di fare il lavoro più bello del mondo», mi dice Graziella mentre le chiedo di raccontarmi quest’ultimo anno. Lei, 56 anni, è una delle quattro infermiere con cui abbiamo ricostruito le tappe di questi ultimi dodici mesi. Lavora al Pronto Soccorso del Sandro Pertini di Roma e sentirla raccontare della battaglia contro il Covid lascia senza parole. «Noi abbiamo avuto un piccolo vantaggio. Milano è stata una delle prime grandi città a vivere l’emergenza dentro gli ospedali. Qui a Roma, invece, sapevamo dei due turisti ricoverati allo Spallanzani. Abbiamo avuto qualche giorno per abituarci all’idea che sarebbe arrivato in tutte le strutture», racconta.
Lei, “di persone in Pronto Soccorso ne ha viste tante in quest’ultimo anno”. «Sa qual è la cosa più brutta di questa malattia? – mi dice a un certo punto -. È vedere arrivare una persona completamente lucida che ti comunica che ha febbre e difficoltà respiratorie. Ti racconta esattamente ciò che sente. E due minuti dopo ti ritrovi accanto all’anestesista che la informa che dovrà intubarla perché i suoi livelli di ossigeno sono troppo bassi. Io sono sempre stata abituata ad assistere l’anestesista mentre intuba un paziente incosciente, ma doverlo fare su una persona che fino a poco prima può parlarti è un’immagine che lascia il segno».
Gli sforzi dell’ultimo anno
Graziella, come molti suoi colleghi, quest’anno ha dovuto tirare fuori energie che forse non sapeva nemmeno di avere. «Ho lavorato tantissimo. Praticamente uscivo di casa la mattina e tornavo la sera, ma ogni volta che attaccavo pensavo solo a dare il meglio di me stessa, a fare tutto il possibile finché non finiva il turno».
Il racconto di Graziella si mescola a quello di una collega a 600 chilometri di distanza. Si chiama Patrizia, 53 anni, infermiera all’ospedale San Leopoldo Mandic, e durante l’emergenza sanitaria è stata spostata in rianimazione, un reparto in cui aveva già lavorato per quindici anni. «Ho passato quasi due mesi e mezzo in rianimazione e la situazione era davvero drammatica. Avevamo a disposizione 6 posti letto che sono stati aumentati a 9; poi ci siamo dovuti appoggiare ad altri reparti che potessero gestire i respiratori», mi dice.
Infermieri over 50 e nuove generazioni
È Patrizia la prima a raccontarmi le difficoltà degli infermieri over 50 in questa pandemia. «Da quattro anni lavoro nel reparto di psichiatria, ma per l’esperienza pregressa mi hanno chiesto di prestare servizio dove c’era più bisogno. Tornare a mobilitare dei pazienti intubati, in una situazione così stressante e con lunghi turni, ha richiesto un enorme tasso di energie fisiche e mentali».
Anche Claudia, 57 anni, infermiera all’ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì, racconta le fatiche degli infermieri e soprattutto i rischi per la loro salute. «Nel nostro ambulatorio (di urologia, ndr) c’è stato un momento di grande criticità quando siamo stati tutti infettati dal virus. Il nostro team è composto da circa venti persone, tra medici e infermieri, e solo quattro sono rimasti in servizio, sobbarcati da un carico di lavoro esponenziale. Quando siamo tornati al lavoro, dopo essere risultati negativi ai test, abbiamo dovuto riprendere le nostre mansioni, ma eravamo stanchi: fisicamente provati e mentalmente preoccupati».
Lei, come le altre, mi espone il suo pensiero in merito alla nuova generazione di infermieri, a quelli che, appena laureati, sono stati impiegati dove c’era più bisogno. «Da ciò che ho potuto osservare, i ragazzi sono stati inseriti in prima linea dove il loro supporto era necessario. Essendo più giovani, hanno più energie e resistono meglio alla fatica». Una situazione che Graziella analizza da un altro punto di vista: «La scelta di assumere ragazzi giovani e “buttarli” nel Covid, mi ha lasciato perplessa. I giovani hanno bisogno di un approccio diverso al lavoro. Li ho visti spaventati: il contesto era troppo teso, troppo difficile».
I tagli alla sanità
Eppure, in molti casi, gli infermieri non erano abbastanza per fronteggiare l’emergenza e assistere i pazienti che si rivolgevano a loro. Una conseguenza della difficile situazione dovuta ai tagli sui fondi destinati alla sanità, come mi racconta Patrizia. «Ci sono reparti di medicina dove un infermiere e un OSS (Operatore Socio-Sanitario, ndr) devono prendersi cura di quindici pazienti per turno. Questo vuol dire dedicarsi alla somministrazione di farmaci, ma anche alla cura e all’assistenza della persona e, a volte, non c’è nemmeno tempo per lavare i capelli a chi ne avrebbe bisogno». È proprio l’assistenza al malato, infatti, a risentire di più di questo sottodimensionamento. Un’assistenza che, come dicono queste infermiere, è costretta a diventare sempre più tecnica e rischia di perdere le sue preziose caratteristiche di empatia e umanità.
«I tagli alla sanità hanno pesato molto sugli esiti di questa pandemia. I posti letto nei piccoli paesi, come quello dove lavoro io, non sono sufficienti, così come non lo sono gli infermieri. Se questa pandemia fosse avvenuta dieci anni fa, avremmo avuto più risorse», mi dice Maria Grazia. Lei ha 57 anni e lavora in una clinica privata in provincia di Messina. Fa l’infermiera da quasi trent’anni e quando le chiedo cosa ne pensa della candidatura al Premio Nobel per la Pace, mi risponde così: «È sicuramente un grande riconoscimento, ma non credo sia ciò che vogliamo. Vogliamo uno stipendio adeguato ai nostri sforzi e alle nostre responsabilità, e un’organizzazione che cambi le cose, aumentando i posti letto e il personale a disposizione».
Poi continua: «Lo scorso anno, nei mesi della prima ondata, quando incontravi qualcuno che sapeva del tuo mestiere ti ringraziava, ma già durante la seconda ondata è stato diverso. Ci hanno chiamato “eroi”, ma per tanto tempo siamo stati anche quelli che nei Pronto Soccorso hanno ricevuto insulti o, nei casi più gravi, sono stati aggrediti».
La speranza per il futuro
Le parole di queste quattro donne, che non si conoscono neppure, si fondono tra loro come a formare un unico racconto. Quello di chi negli ultimi dodici mesi ha faticato tanto, spendendosi per la comunità, così come ha fatto in tutti questi anni di carriera. Quando le saluto, al telefono, chiedo a ognuna di loro quale sia l’augurio per il futuro. Nelle parole di Graziella si racchiude il pensiero di tutte: «Io non so come ne usciremo. A volte penso che ne usciremo peggio di come siamo entrati. Altre volte, invece, penso che forse qualcosa di buono possa venire fuori. Io spero solo che chi ha il potere di farlo possa rivalutare tutta la sanità, non solo la nostra figura».
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