I giovani che oggi entrano nel mercato del lavoro andranno in pensione a 71 anni. E, a meno di avere la “fortuna” di un posto fisso, percepiranno assegni sempre più sottili. Anche se la riforma del 1995 ha consentito un passo decisivo per affrontare la sfida dell’invecchiamento, la spesa pensionistica italiana continua ad essere fra le più elevate dell’area Ocse. Perché?
I giovani che oggi entrano nel mercato del lavoro andranno in pensione a 71 anni. Un’età che avvicina l’Italia a Danimarca (74 anni), Estonia (71 anni) e Paesi Bassi (71 anni), ma superiore alla media dei Paesi dell’Ocse, pari a 66 anni. È quanto prevede l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico nel report “Pensions at a Glance 2021” nel quale esamina i sistemi pensionistici degli Stati membri.
Il sistema pensionistico italiano fra luci e ombre
Nel 1995 è stato introdotto in Italia il sistema contributivo, che lega la pensione futura ai contributi versati durante la carriera lavorativa. Così il nostro Paese “ha compiuto un passo decisivo per affrontare le sfide poste dal rapido invecchiamento della popolazione”. Anche se – spiega l’Ocse – il regime sarà pienamente efficace solo verso il 2040, l’Italia figura fra i sette Paesi che collegano l’età pensionabile prevista per legge alla speranza di vita. Un legame – spiega ancora l’Organizzazione di Parigi – che “non è necessario per migliorare le finanze pensionistiche; piuttosto mira a evitare che le persone vadano in pensione troppo presto con pensioni troppo basse e a promuovere l’occupazione in età più avanzata”. Però, con alcune criticità.
Fra i paesi con un sistema di questo tipo, infatti, solo la Svezia dispone di un meccanismo automatico aggiuntivo che garantisce un bilancio pensionistico equilibrato nel tempo. Il regime italiano trarrebbe vantaggio da una maggiore trasparenza nel calcolo delle prestazioni contributive – sottolinea l’Ocse – e da un monitoraggio e una gestione migliori della solvibilità a lungo termine. Inoltre, mentre in Italia, Danimarca ed Estonia tutti i miglioramenti dell’aspettativa di vita vengono automaticamente integrati all’età pensionabile, in alternativa, la Finlandia e i Paesi Bassi trasmettono solo due terzi dei miglioramenti dell’aspettativa di vita all’età pensionabile. Ciononostante, la spesa pensionistica italiana continua ad essere fra le più elevate dell’area Ocse. Perché?
Invecchiamento e prepensionamenti spingono in alto la spesa per le pensioni
Nel 2050 ci saranno 74 over 65 ogni 100 persone di età compresa fra 20 e 64 anni, uno dei rapporti più alti rilevati nell’area Ocse. “Negli ultimi 20 anni – evidenzia il report -, la crescita dell’occupazione, anche attraverso carriere più lunghe, ha compensato più della metà della pressione dell’invecchiamento demografico sulla spesa pensionistica in Italia. Ciononostante, quest’ultima è aumentata del 2,2% del PIL tra il 2000 e il 2017”. Raggiungendo un ‘peso’ del 15,4% del PIL nel 2019, il più elevato dei paesi Ocse dopo quello rilevato in Grecia. Sul quale incidono anche le diverse opzioni per andare in pensione prima dell’età pensionabile prevista dalla legge. Come Quota 100 – che nel 2022 dovrebbe essere prolungata in “Quota 102” -, la pensione anticipata contributiva a 64 anni e 20 di contributi, il prepensionamento per chi ha svolto lavori usuranti, l’Opzione donna, lo scivolo pensionistico per i lavoratori di aziende in crisi.
Opzioni di prepensionamento che – precisa l’Organizzazione – “abbassano l’età media di uscita dal mercato del lavoro, pari mediamente a 61,8 anni contro i 63,1 anni della media Ocse “oltre ad innalzare la spesa pubblica per le pensioni. In questo contesto, per l’Italia l’incremento dell’occupazione continua a rivestire un’importanza cruciale, in particolare nelle fasce di lavoratori più anziani.
Per gli anziani redditi elevati, ma in futuro non sarà così per tutti
Guardando al reddito degli anziani, l’Ocse rileva che in Italia si attesta attualmente a livelli elevati; in particolare, quello medio degli ultrasessantacinquenni è simile a quello della popolazione totale, pari mediamente a 30.233 euro. Mentre è inferiore in media del 12% rispetto alla zona Ocse e del 15% rispetto all’Italia di 20 anni fa. Tuttavia, la disparità di reddito e il tasso di povertà di reddito relativo tra gli anziani si sono allineati al valore mediano dei Paesi dell’Ocse. Questo a seguito del notevole calo del tasso di povertà in età avanzata registrato in Italia negli ultimi decenni. Inoltre, durante la crisi Covid-19, “le pensioni non sono diminuite e i diritti pensionistici hanno continuato a maturare completamente anche per i lavoratori in cassa integrazione; in modo analogo a quanto accaduto per altri Paesi dell’Ocse”. Ma, in futuro, non sarà così per tutti.
Carriere discontinue e lavoro autonomo i più penalizzati
L’Ocse prende in considerazione il cosiddetto “tasso di sostituzione”. Si tratta del rapporto percentuale fra la prima pensione e l’ultimo stipendio percepito prima del pensionamento. Il sistema pensionistico italiano abbina un’età legale di pensionamento alta a un’elevata aliquota contributiva del 33%. Il che – spiega il report – determina un elevato tasso di sostituzione netto, pari all’82% per i lavoratori con una carriera senza interruzioni e con salario medio. Questo rispetto a un tasso del 62% in media nell’area dell’Ocse. Anche andando in pensione 3 anni prima, a 68 anni, il futuro tasso di sostituzione netto scende sostanzialmente al 72%; un valore che rimane alto in un confronto a livello internazionale. Ma questi livelli non sono per tutti.
Prendiamo, ad esempio, una lavoratrice che inizia la sua carriera a 27 anni ed è disoccupata per 10 anni nell’arco della sua vita professionale. Secondo l’Ocse riceverà una pensione inferiore del 27% rispetto a quella di una lavoratrice a tempo pieno; contro la media del 22% inferiore negli altri Stati membri. Inoltre, le aliquote contributive dei lavoratori autonomi sono inferiori di un terzo rispetto a quelle dei dipendenti. Dunque, i lavoratori indipendenti possono aspettarsi pensioni inferiori di circa il 30% rispetto a quelle dei dipendenti con lo stesso reddito imponibile per tutta la carriera; la media Ocse è del 25% più bassa.
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