Ogni 3 maggio si celebra la Giornata mondiale della libertà di stampa per ricordare l’importanza di un diritto tutelato dalla stessa Costituzione, ma che spesso vede i giornalisti vittime di soprusi e minacce. Ne abbiamo parlato con Paolo Borrometi, uno dei venti giornalisti italiani sotto scorta
«Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto». Sono le parole di Horacio Verbitsky, giornalista e principale esponente del movimento argentino per la difesa dei diritti umani. Sono le stesse parole con cui Paolo Borrometi ha deciso di aprire il suo libro, Un morto ogni tanto, in cui racconta la sua storia e in qualche modo la storia di tutti quei giornalisti che decidono di raccontare la verità anche dopo aver ricevuto minacce, aggressioni e soprusi.
Secondo l’Osservatorio Cronisti Minacciati, promosso dal Ministero dell’Interno, in Italia il fenomeno non è sconosciuto, anzi. Si parla di 156 casi solo nei primi 9 mesi dello scorso anno, con una crescita del 21% rispetto al 2020. La metà delle minacce arriva dal web e dai social network, e le Regioni più pericolose sono Lazio, Toscana, Lombardia e Sicilia. La storia di Paolo Borrometi parte proprio da qui. Siciliano, nato a Modica nel 1983, oggi vice direttore dell’AGI (Agenzia Giornalistica Italia), direttore de LaSpia.it, la testata da lui fondata, e Presidente di “Articolo 21, liberi di…”, l’associazione che riunisce esponenti del mondo della comunicazione, promuovendo la libera manifestazione del pensiero oggetto dell’articolo 21 della nostra Costituzione. Con lui abbiamo parlato di libertà di stampa e della sua esperienza personale.
Il 3 maggio si celebra la Giornata mondiale della libertà di stampa. Secondo te, che significato ha oggi, in Italia, questa ricorrenza?
Nel nostro Paese ci sono attualmente molti giornalisti sotto scorta, così come altre figure che ricevono intimidazioni solo per aver svolto il loro mestiere e per questo vengono minacciate. Parliamo di magistrati in primis, ma anche di esponenti politici, di persone che si occupano del mondo dell’informazione a vari livelli. Credo che questa ricorrenza dia la possibilità di evidenziare l’importanza della libertà di stampa, ma soprattutto di sostenere la libertà di parola e della manifestazione del pensiero. Quest’anno, poi, assume un nuovo significato di fronte a quanto sta accadendo nel conflitto russo-ucraino. Molti giornalisti sono morti facendo il loro lavoro, riportando le notizie dai luoghi di guerra, e sono state attuate misure di coercizione e di censura nella diffusione di alcune informazioni. Questo dovrebbe essere ciò a cui pensare in questa ricorrenza e non solo.
Ogni anno Reporters Sans Frontières (RSF) pubblica la classifica dedicata alla libertà di stampa dei vari Paesi del mondo. L’Italia, purtroppo, si trova al 41° posto, molto più in basso rispetto ai grandi Paesi europei. Secondo te, perché e cosa si può fare in merito?
Come dicevamo, nel nostro Paese ci sono molti giornalisti sotto scorta e oggetto di minacce perché riportano fatti e vicende che qualcuno vorrebbe rimanessero nascoste. Chi parla di fenomeni neofascisti – e qui penso al collega Paolo Berizzi -, di mafia, di vicende politiche scomode e di affari illegali rischia di diventare un bersaglio e questo può scoraggiare dall’idea di intraprendere la strada dell’informazione. A questo proposito, dobbiamo ricordare l’articolo 21 della nostra Costituzione, che garantisce il diritto a informare, ma soprattutto il diritto dei cittadini ad essere informati e quindi consapevoli. In tal senso, per arrivare a un’informazione completamente trasparente c’è ancora della strada da fare e personalmente mi chiedo quanto sia realmente forte il desiderio di questo Paese di raggiungere una vera libertà di informazione.
A proposito dell’articolo 21, vent’anni fa è nata l’associazione “Articolo 21, liberi di…” di cui sei presidente. Qual è il ruolo e l’importanza di questa realtà nel panorama italiano?
Dal 2002 l’associazione promuove molte campagne di denuncia contro le censure, le minacce e le violenze a tutte quelle che sono espressioni e manifestazioni del pensiero. Non si è occupata solo di giornalisti, ma negli ultimi anni, ad esempio, ha dato il proprio contributo sul caso di Patrick Zacky, sulla ricerca della verità per Giulio Regeni e si è battuta anche contro gli insulti e le minacce rivolte alla senatrice a vita Liliana Segre. Abbiamo parlato di sicurezza sul lavoro, di mafie, di pace, di beni comuni e continueremo a farlo.
In merito alle minacce e alle intimidazioni subite dai giornalisti, ogni anno l’Osservatorio Cronisti Minacciati riporta dei dati allarmanti. Tu sei uno dei venti giornalisti italiani che vive sotto scorta. Ci racconti come hai iniziato a parlare di mafia e com’è cambiata la tua vita dal 2014 a oggi?
Prima di rispondere ci tengo a precisare che io vivo sotto scorta, è vero, ma trovo che non sia giusto parlarne in modo tragico. D’altra parte, però, mi piacerebbe venisse sfatata quella retorica secondo cui vivere sotto scorta è un privilegio. Non mi è mai capitato che qualcuno mi dicesse direttamente, ad esempio, che i ragazzi che mi accompagnano ogni giorno sono “pagati con i soldi dei cittadini”, ma sono frasi che capita di sentire. Penso, però, che nessuno al mio posto penserebbe si tratti di un privilegio non poter andare al mare da otto anni o a teatro o a un concerto. Oppure dover pianificare ogni singolo spostamento con largo anticipo. La mia vita è questa dal 2014 quando, scrivendo di mafia, ho subìto un’aggressione fisica. Successivamente hanno appiccato il fuoco alla porta di casa mia, a Modica, e ho ricevuto telefonate minatorie. Quando intercettarono le telefonate in cui pensavano di eliminarmi, mi affidarono la scorta.
Nel mese di maggio ricorre anche il trentennale della morte di Giovanni Falcone e so che ad aprile sei stato moderatore di un incontro a Pistoia, in occasione dell’esposizione dei resti della Quarto Savoia 15 (l’auto su cui viaggiava la scorta di Falcone, ndr). Pensi che l’impegno, l’eredità e il sacrificio di Falcone e Borsellino siano stati raccolti nel modo giusto?
Credo che in questi trent’anni siano state fatte molte cose. Il mio timore, però, è che si ricominci a parlare di mafia il 23 maggio e poi il 19 luglio (il giorno della morte di Borsellino, ndr), ma che il 22 o il 24 maggio così come il 18 o il 20 luglio tutto torni come prima. La mafia ancora oggi punta tutto sui rapporti che può intessere con chi comanda, con chi governa, ma anche con l’economia e gli imprenditori. Nel Nord Italia c’è ancora chi nega l’esistenza di questo fenomeno quindi, in questo senso, l’informazione gioca un ruolo importantissimo: il cittadino che conosce è un cittadino che riconosce i pericoli e contribuisce alla giustizia. Quel 23 maggio del 1992 io ero solo un ragazzino, ma forse è in quel momento che è nato il mio desiderio di fare giornalismo.
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