La pandemia ha colpito il Paese su vari fronti, tra cui quello demografico. Si è abbattuta sulla popolazione più anziana e frenato i progetti di vita dei giovani e delle famiglie. Nonostante tutto, le opportunità future non mancano, basta saperle cogliere.
La pandemia ha evidenziato le molteplici fragilità del nostro Paese. Tra gli ambiti più colpiti c’è quello demografico, in squilibrio ormai da anni. Tanto che dall’ultimo Censimento Istat siamo arrivati ad avere 5 “nonni” per ogni bambino. La pandemia rischia di acuire ulteriormente la cronica denatalità del nostro Paese, tra le più alte del mondo.
Quale futuro ci aspetta? Lo abbiamo chiesto al professor Alessandro Rosina, docente ordinario di Demografia alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, coordinatore del Gruppo di esperti Demografia e Covid-19 del Dipartimento per le politiche della famiglia presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Gruppo di lavoro è stato impegnato in un primo rapporto, L’impatto della pandemia Covid-19 su natalità e condizioni delle nuove generazioni.
«Lo squilibrio demografico – spiega il professor Rosina – è dovuto sostanzialmente alla riduzione della natalità ormai a livelli molto bassi. Il numero di nascite si è dimezzato rispetto alla metà degli Anni ’60. Così, una volta raggiunti i 500mila nati, il punto più basso di sempre dall’Unità d’Italia in poi, nel 2019 siamo scesi a 420mila nascite. I fattori negativi che agivano sulla natalità prima della pandemia ora rischiano di aggravarsi. I giovani, che già facevano fatica a trovare un’occupazione, hanno anche dovuto rinviare i progetti di vita che avevano all’inizio del 2020. Questo emerge dall’indagine internazionale dell’Istituto Toniolo della scorsa primavera, poi replicata in ottobre. Da un confronto con altri Paesi, come Germania, Francia e Spagna, è emerso che i giovani italiani si trovano a rinviare maggiormente i loro progetti rispetto ai coetanei. Avevamo già la più alta percentuale di “Neet” (giovani che non studiano e non lavorano), una maggiore permanenza nella famiglia di origine e un’età più tardiva dell’arrivo del primo figlio. Insomma, la pandemia rischia di aggravare ulteriormente tutti questi aspetti. In più, la crisi sanitaria ha inciso sulla conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro. Il carico delle donne all’interno della famiglia è stato ancora più accentuato. Anche i nonni, a causa del distanziamento fisico, non hanno potuto dare il proprio contributo. Inoltre, i servizi per l’infanzia sono stati chiusi. Questa situazione, unita a un tasso di occupazione femminile già molto basso, frena l’arrivo dei figli. Poi ci sono le difficoltà economiche. Siamo il Paese con il più alto rischio di impoverimento delle famiglie dal secondo figlio in poi. Ultimo punto, non meno importante, la pandemia ha aggiunto incertezza verso il futuro. Anche questo pesa nella scelta di avere figli. Secondo alcune stime dell’Istat, l’impatto maggiore sulle nascite lo vedremo nel 2021: il rischio è di scendere sotto le 400mila, il punto più basso».
Come si può invertire questa rotta?
Se li vogliamo vedere, ci sono degli elementi incoraggianti. Prima della pandemia non eravamo pronti, a livello degli altri Paesi, rispetto alle politiche famigliari. Avevamo il progetto del Family Act che stava partendo, ideato per riallineare l’Italia con le migliori esperienze europee. Tra le novità c’è l’assegno unico universale e il congedo di paternità portato ad almeno 10 giorni. Può sembrare poco ma è un segnale rilevante di condivisione. Avremmo già dovuto avere il Family Act avviato, invece ci siamo trovati sguarniti. Occorre accelerare con la protezione alle famiglie, altrimenti i costi saranno rilevanti e sarà difficile recuperare. Altro aspetto positivo è che ora abbiamo le risorse necessarie, quelle di Next Generation Eu, quindi non abbiamo più alibi. Infine, l’Italia è debole non solo per una struttura demografica squilibrata, ma anche per l’alto debito pubblico. Non possiamo scaricare sulle nuove generazioni sia gli squilibri demografici sia il debito pubblico. Per questo è fondamentale investire in formazione, politiche attive del lavoro, valorizzazione del capitale umano all’interno delle aziende e delle organizzazioni.
In più occasioni, come nel suo ultimo libro Il futuro non invecchia, ha sottolineato la necessità di un’alleanza tra le generazioni…
Lo scenario peggiore che potrebbe capitare è quello degli squilibri demografici uniti al conflitto generazionale. Ovvero la generazione più matura che riversa i suoi giudizi negativi sui giovani e questi ultimi i loro risentimenti nei confronti dei più anziani, pensando che ciò che manca ai giovani sia colpa degli anziani. Se andiamo a vedere la spesa sociale italiana, non investiamo troppo sulle pensioni o sulla spesa sanitaria, voci che vanno di più a favore delle generazioni più mature. Anzi, se avessimo investito di più sul Sistema Sanitario Nazionale e sulla capacità di protezione della condizione di salute della popolazione più fragile e anziana, avremmo avuto meno problemi legati all’impatto della pandemia e alla necessità di bloccare il Paese. Quindi, investire sulla salute di tutti e su buone condizioni di vita in tutte le sue fasi è una necessità assoluta. Investire sulla formazione permanente, consentire che le fasi della vita, anche quelle più mature, possano essere anni di vita attiva dal punto di vista lavorativo, nel sociale o ovunque si voglia dare il proprio contributo. Questo va a vantaggio di tutti. Non possiamo pensare che il lavoro di un 55enne o 65enne vada a scapito di un giovane 25enne. Dobbiamo però creare nuove opportunità per le nuove generazioni, investendo in ricerca, sviluppo e innovazione. In questo modo possono espandersi quei settori più dinamici, più competitivi, più legati alla transizione verde e digitale. In modo da creare un’occupazione di qualità, capace di produrre ricchezza, necessaria per rendere sostenibile il sistema di welfare di una popolazione che invecchia. Questo va a vantaggio di tutti, anche della popolazione anziana. Un altro settore che dimostra come possano esserci soluzioni per il benessere di tutti è quello dell’innovazione tecnologica per l’assistenza a distanza, la domotica o le nuove tecnologie abilitanti. Tutto questo permette di vivere in un ambiente domestico più sano e più sicuro. Naturalmente, occorre valorizzare l’esperienza delle persone mature in ambito aziendale. Creare dei team di collaborazione anche all’interno delle associazioni, del volontariato tra persone più giovani e mature per unire innovazione, creatività, esperienza, saper fare ed energie.
Quindi potremmo avere un futuro pieno di opportunità?
Dipende da noi, immaginiamo un Paese in cui le competenze di ciascuno possano essere messe a disposizione e ogni stagione della vita sia considerata come portatrice di uno specifico valore. La pandemia ci ha messo di fronte alle nostre fragilità, ora dobbiamo costruire un percorso nuovo, mettendo in campo pienamente la collaborazione tra le generazioni. Questa è l’occasione, se vogliamo coglierla.
1951-2019 – Cosa è cambiato
Il progressivo invecchiamento della popolazione italiana è ancora più evidente se confrontato con i passati censimenti Istat. Il numero di anziani per bambino è passato da meno di 1 nel 1951 a 5 nel 2019 (nel 2011 era di 3,8). L’indice di vecchiaia (dato dal rapporto tra la popolazione di over 65 e quella con meno di 15 anni) è notevolmente aumentato, dal 33,5% del 1951 a circa il 180% del 2019 (148,7% nel 2001).
L’età media si è innalzata di due anni rispetto al 2011 (da 43 a 45 anni). La Campania, con 42 anni, è la regione con la popolazione più giovane. La Liguria è la regione con l’età media più elevata (49 anni). Anche nel 1951 la Campania e la Liguria erano la regione più giovane e quella più vecchia ma, per entrambe, l’età media risultava più bassa di 13-14 anni rispetto a quella del 2019. Nel 1951 l’età media del Paese era di 32 anni.
Testimonianze. Il mondo delle Rsa: riflessioni e criticità
Anna Maria Melloni, responsabile del Centro Studi 50Più, ha condiviso considerazioni sulla sua esperienza professionale nelle Residenze Sanitarie Assistenziali.
«La struttura socioassistenziale rappresenta una realtà di comunità molto complessa da gestire, e l’integrazione tra le figure professionali è la chiave di un funzionamento ottimale, anche se negli ultimi abbiamo assistito a una forte burocratizzazione del lavoro». Anna Maria Melloni, responsabile del Centro Studi 50Più, ha una lunga esperienza nel campo della formazione in ambito sociale e ha operato anche in molte Rsa nel Nord e nel Centro Italia sul lavoro d’équipe e della relazione d’aiuto; le abbiamo chiesto di condividere con i nostri lettori una riflessione sulla situazione delle residenze sanitarie assistenziali italiane, anche alla luce dell’ultimo anno e delle criticità aggravate dalla pandemia.
«Negli anni ho visto situazioni estremamente diverse, ma non ho riscontrato una polarizzazione fra pubblico e privato in cui sia possibile associare caratteristiche positive o negative. Ciò che fa la differenza è la gestione, il coordinamento e soprattutto il lavoro di équipe – spiega Melloni-, laddove c’è una frattura fra le diverse professionalità, ad esempio tra infermieri e Oss, operatori socio sanitari, è un disastro. Quando invece si riesce a mettere in campo un coordinamento ottimale, e tutti, dal medico all’animatore, si sentono parte della stessa comunità, si ottengono i migliori risultati. Purtroppo però esistono ancora situazioni in cui il riconoscimento di alcune professionalità come l’Oss è solo retorica, e invece si tratta di una figura fondamentale perché è quella di maggiore contatto con l’ospite.
Quali sono le criticità per i professionisti che lavorano all’interno delle Rsa?
Negli anni c’è stato un progressivo aggravio burocratico dei compiti ai quali bisogna assolvere, oltre a maggiori richieste formali per certificare tutto ciò che accade all’interno delle strutture. E se è vero che è fondamentale avere traccia quotidiana del lavoro fatto, questo non deve però diventare un procedimento burocratico fine a se stesso. C’è poi il tema del minutaggio, ossia dei minuti medi previsti per l’assistenza di ogni persona residente in struttura, cosa che comporta una standardizzazione del lavoro sempre più incasellato entro parametri di calcolo. Il problema è che nel frattempo si assiste anche a una progressiva riduzione del personale, e questo rende difficile prendersi cura degli ospiti adeguatamente perché crescono le mansioni ma diminuiscono le persone. Un altro tema, secondo me importante da considerare, è che alcune professioni non si possono svolgere per tutta la vita lavorativa, e quelle che pongono il professionista in una costante relazione di aiuto e di cura sono fra queste. Altrimenti si rischia che le persone si “schermino” e mettano in atto comportamenti con varie gradazioni di minore sensibilità, perché a loro viene delegato tutto l’aspetto relazionale, e il carico psicologico nel tempo è molto forte. C’è infine un discorso occupazionale, soprattutto per gli operatori sociosanitari che lavorano in questi contesti, e che spesso non hanno adeguata garanzia contrattuale perché alle dipendenze di cooperative, costretti quindi a vivere una forte precarietà.
Nella sua esperienza di formatrice quali criticità ha affrontato con il personale delle strutture socioassistenziali?
Fino a quindici anni fa le persone che lavoravano nel campo affermavano tutte di aver scelto quella professione di cura per una sorta di vocazione all’aiuto. Oggi non è più così, perché capita che alcuni operatori arrivino da esperienze molto diverse, anche nel campo impiegatizio, e si ritrovino nel settore dell’assistenza alla persona perché hanno perso il loro primo lavoro e non sono riusciti a trovare un altro impiego. Così capita di dover formare persone che non hanno una predisposizione per il contatto fisico e l’aiuto. In questo caso bisogna lavorarci insieme, partendo proprio dalla consapevolezza di non avere quella vocazione, ma cercando di dare strumenti che possano aiutare a lavorare al meglio, perché non dobbiamo dimenticare che parliamo di professioni che hanno un impatto diretto sulla qualità della vita di altri.
Qual è il ruolo dei familiari dell’ospite nelle Rsa?
I familiari e anche i volontari sono figure fondamentali in contesti di comunità. E questo è stato uno dei problemi quando è scoppiata la pandemia: le strutture si sono chiuse all’esterno e hanno limitato i contatti con i parenti, che comunque garantivano un supporto pratico nell’assistenza oltre che una forma di controllo.
Anche Amnesty International si è occupata di quanto accaduto nelle Rsa durante la pandemia: che cosa non ha funzionato, secondo lei?
Quando a marzo è scoppiata l’emergenza si era tutti sotto choc, poi però si sarebbe dovuto pianificare un intervento più organico, supportare queste strutture che si sono ritrovate da sole e hanno fatto quello che hanno potuto, spesso andando contro le direttive che arrivavano dall’alto. Ancora adesso, dopo un anno, le residenze si stanno scontrando con il fatto che per i tanti operatori che hanno risposto alle chiamate degli ospedali, si ritrovano con una grave carenza di personale. A questo non aveva pensato nessuno. Viene da chiedersi che tipo di intervento ci sarebbe stato se non si fosse trattato di anziani ma di persone di diversa fascia d’età, bambini o giovani: questa lentezza di intervento si sarebbe manifestata lo stesso? Io credo di no. Purtroppo, nonostante i tempi siano cambiati, esiste un retaggio non ancora superato che riconduce le strutture residenziali a luoghi dell’abbandono. Eppure le famiglie da sole non possono reggere il carico della cura di una persona totalmente non autosufficiente, anche se tante si trovano costrette a farlo. Faccio un esempio per spiegare la percezione e l’assuefazione a concetti sbagliati: quando nel marzo dello scorso anno è scoppiata la pandemia, e da ogni parte venivano fuori “dichiarazioni consolatorie” sul fatto che i più colpiti fossero gli anziani con patologie pregresse, abbiamo fatto un sondaggio fra gli over65 per capire come si sentissero in merito. Ero certa che avremmo trovato indignazione e invece le persone hanno dichiarato di non sentirsi offese. Un po’ come accade quando le donne che percepiscono stipendi inferiori agli uomini per le stesse mansioni dichiarano di non sentirsi discriminate. Ecco, in questo caso la morte dei più vulnerabili era stata quasi “socialmente accettata”. C’è tanto da lavorare, insomma.
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