Mentire o dire la verità? Non sempre la risposta è scontata. La moralità di un’azione la giudichiamo noi, con i nostri valori; per affrontare nel modo migliore i conflitti quotidiani
È sempre sbagliato dire una bugia? A prima vista, il divieto di mentire ci trova tutti d’accordo: in astratto è una regola non controversa. O esistono condizioni per cui è opportuno, giustificabile, addirittura necessario, mentire? È una domanda che va dritta al centro di come funziona la riflessione su questioni morali, su ciò che è giusto fare. Ci sono situazioni in cui la risposta ci pare ovvia: non uccideremmo mai un innocente, non sfileremmo un portafoglio di tasca a un passante. Ci sono però altre situazioni in cui le risposte sono meno scontate.
Immaginate che sia il 1944. Vivete in campagna e una famiglia ebrea in fuga vi chiede rifugio in casa. Voi li accogliete, date loro da mangiare, li nascondete in cantina. Un giorno bussa alla vostra porta un ufficiale delle SS, che vi chiede se siete a conoscenza di ebrei che si sono nascosti dalle vostre parti. La cosa giusta da fare vi pare una sola: non rivelare la presenza della famiglia a cui avete offerto un riparo in casa vostra. Ma come la mettiamo con l’obbligo di dire la verità? Il filosofo Immanuel Kant sosteneva che mentire non è mai lecito e lede la dignità morale di tutti gli esseri umani. Ma se diciamo la verità all’ufficiale tedesco esponiamo a un grave pericolo le persone cui abbiamo dato rifugio e noi stessi. Come si esce da questo dilemma etico?
Interrogarsi su situazioni estreme può sembrare inutile – se siamo fortunati non ci capiterà mai di dover proteggere delle persone che rischiano di essere deportate – ma ci consente di guardare più da vicino, di mettere meglio a fuoco i valori che fondano le nostre decisioni. La vita ci pone spesso davanti a problemi moralmente complessi, in cui vi è una tensione tra principi contrapposti: nel nostro esempio, il principio del preservare delle vite umane contro quello – a questo punto solo in apparenza assoluto – di dire la verità.
Per quale ragione crediamo che sia sbagliato mentire? Proviamo a proporre un paio di interpretazioni, non necessariamente esaustive. La prima è che la regola di non mentire viene dalla necessità che gli esseri umani hanno di potersi fidare gli uni degli altri. Soprattutto in comunità ristrette, come i primi insediamenti agricoli, la fiducia, che è alla base della cooperazione, era fondamentale per la sopravvivenza dell’individuo e della collettività. Una persona che mente spesso è una persona di cui non possiamo fidarci: non sappiamo mai quando le sue parole riflettono la realtà, se possiamo essere sicuri dei suoi racconti, quanto possiamo credere alle sue promesse. Dire la verità ci permette di provare agli altri che possono fare affidamento su di noi.
Ecco però una seconda ragione: mentire può essere causa di ingiustizia. Se qualcuno fa circolare una falsa diceria su di voi – che avete rubato dalla cassa del negozio in cui lavorate, ad esempio – e per questo venite licenziati, siete vittime di un torto. Non è un caso che tra le più antiche massime sul dire la verità, l’ottavo comandamento afferma che non bisogna “dire falsa testimonianza”. È un linguaggio che rimanda all’ambito giudiziario, all’ingiustizia che viene commessa se si testimonia a favore di un colpevole o, peggio, per far condannare una persona innocente. È un principio quindi che riguarda non tanto la menzogna quanto gli effetti che essa può avere nella vita quotidiana, nelle controversie, nei tribunali.
Se comprendiamo le ragioni dietro una norma, morale o giuridica che sia, anche e soprattutto se tale norma è di senso comune (cioè la consideriamo ovvia), abbiamo strumenti più efficaci per districarci di fronte a problemi complessi. È un lavoro a ritroso, oltre la regola che diamo per scontata, fino alla radice, alla ragione profonda, che la tiene in piedi. Se una delle ragioni per cui troviamo la menzogna moralmente riprovevole è che può essere causa di ingiustizia – quindi, se il principio che ci guida è la giustizia e non un ideale astratto di verità -, è più facile capire perché il dovere di difendere la famiglia ebrea è superiore al nostro dovere di essere sinceri. Mentire in questo caso evita un’iniquità ben più grave: la morte di persone innocenti per mano di un’autorità illegittima.
Cerchiamo regole precise per giudicare la moralità di un’azione perché riteniamo che tali regole rappresentino valori universali, ma anche perché ci semplificano la vita. Permettono di rendere più comprensibile il complicato mondo dei rapporti umani e di gestire con più facilità i conflitti con cui ogni giorno, inevitabilmente, abbiamo a che fare. Permettono anche di non lasciare al giudizio soggettivo, intuitivo e spesso grossolano, decisioni che hanno effetti seri sugli altri.
Riflettere sulle norme (come quella che impone di dire la verità) che guidano i nostri giudizi morali, metterle in dubbio, trovare le eventuali eccezioni, non le indebolisce. Al contrario, ci consente di capirle più a fondo e di muoverci meglio fra i dilemmi più intricati delle nostre esistenze. Ci fa diventare, in sintesi, persone migliori.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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