A prendersi cura di loro è il tutore volontario, una figura ancora poco conosciuta e sottovalutata. Privati cittadini che mettono a disposizione il loro tempo e le loro energie con un obiettivo: accogliere e aiutare
La prima foto che ci mostra la ritrae con Zaidou, ragazzo di pelle scura, sguardo serio e occhi limpidi. «È arrivato nel 2017 in Italia e io me ne prendevo cura, insieme ad una signora. Lei aveva spazio in casa e lui viveva con lei. Nel fine settimana e durante le vacanze, però, Zaidou veniva da me. Ci siamo supportati a vicenda ed è stato bellissimo. Oggi lui è maggiorenne, ha un lavoro fisso, è regolare sul territorio. Continuiamo a sentirci e a volte si appoggia a noi, ma è completamente autonomo». È così che Raffaella racconta il suo esordio, come “tutrice volontaria”. Lei abita a Sondrio, di professione fa l’educatrice, si occupa di disabili. La sensibilità, dunque, fa parte del suo DNA. Ma un conto è lavorare nel terzo settore, un conto è decidere di intraprendere un percorso tout court. Dal 2017 ad oggi ha aiutato sei ragazzi, un intreccio di storie e di volti, un arricchimento del quale non riesce a fare più a meno. E non è la sola. Insieme ad altri tutori ha creato un’associazione, “Tutori Lombardia”, per sensibilizzare e promuovere questo ruolo.
IL TUTORE VOLONTARIO
Chi è? Che cosa fa? Di cosa si occupa? Il tutore volontario è un privato cittadino che dà la sua disponibilità ad esercitare la rappresentanza legale di un minore straniero non accompagnato (MNSA), ovvero giunto in Italia senza alcun adulto di riferimento. Si tratta di una figura introdotta con il Decreto Legislativo n. 47 del 2017, la cosiddetta “Legge Zampa”. Non servono particolari requisiti, almeno sulla carta. In Lombardia, ad esempio, si può rispondere ad un avviso pubblico dell’Ufficio del Difensore Regionale Garante per l’Infanzia e adolescenza. Bisogna avere almeno 25 anni, un diploma di scuola superiore, la residenza in regione e, ovviamente, delle motivazioni forti. Una volta vagliate tutte le domande, si viene convocati per un colloquio attitudinale e, in caso di esito positivo, si accede ad un percorso formativo, anche da remoto, obbligatorio e gratuito. Se la persona, al termine di tutto questo iter, è ancora intenzionata al percorso, viene inserita nell’apposito elenco di tutori volontari. Sarà poi il Tribunale Minorile ad avviare i contatti nel momento in cui si aprirà una tutela in favore di un minore straniero. A quel punto può avere avvio l’esperienza.
LA CARENZA DI TUTORI
Non è facile trovare queste figure, soprattutto perché se ne parla ancora poco, gli iter di reclutamento variano da regione a regione, il percorso a volte non è sempre ben strutturato e i tutori rischiano di sentirsi soli. A fine luglio scorso, ad esempio, in Lombardia c’erano 226 tutori appena a front di 1.800 minori presenti sul territorio. Un numero esiguo, troppo esiguo. I comuni, nel frattempo, si organizzano in autonomia, per garantire a questi adolescenti un’alternativa alla comunità. Per la città di Lecco, ad esempio, è il Comune stesso, nella persona del Sindaco, ad assolvere la funzione di tutore legale. Non potendosi occupare, ovviamente, di tutti i minori non accompagnati presenti sul territorio delega, attraverso i servizi sociali, degli “affidatari” a cui spetta il compito di accudire i ragazzi. «Prima di tutto bisogna garantire un’ospitalità idonea, il mantenimento, l’accompagnamento nei luoghi nei quali sia necessario, come la questura, la scuola, i presidi sanitari; bisogna inserirli nel tessuto sociale». A parlare è Gianfranco Stamerra, classe 1951, che da otto anni ricopre questo incarico.
DOPO LA PENSIONE, UNA NUOVA NASCITA
Consulente amministrativo, da sempre attivo nel settore dell’associazionismo e del volontariato, Gianfranco decide di abbracciare questa causa in modo abbastanza fortuito. Tutto nasce un po’ per caso. «Una signora che conoscevo, molto attiva sul territorio lecchese, aveva l’incarico di badare a cinque ragazzi marocchini, ma non riusciva bene a gestirli. Così mi ha chiesto di darle una mano, visto che ero da poco andato in pensione – racconta Stamerra -. Ho accettato soprattutto per farle un favore, non avevo riflettuto troppo sulla cosa». Era la fine del 2015, era l’inizio delle prime grandi ondate migratorie. Nelle città italiane iniziavano a comparire i primi grandi centri di accoglienza, tirati su in tutta fretta, spesso in tende e strutture precarie. Lo Stato stava, in qualche modo, cercando di prendere le misure e di costruire un sistema che, negli anni, sarebbe stato sempre più sviluppato. Ma già allora si iniziavano ad intravedere dei tentativi diversi di accoglienza. Un’accoglienza lontana dai grandi numeri, ma declinata in progetti che miravano alla persona. Gianfranco inizia ad occuparsi di questi ragazzi, la mattina presto li raggiunge in casa, si assicura che si alzino in tempo per andare a scuola. Li aspetta per il pranzo, trascorre con loro il pomeriggio. Passano alcune settimane e poi, in accordo con i servizi sociali, decide di compiere un passo ancora più grande, essere lui stesso “affidatario” aprendo le porte della sua casa. E la sua vita cambia.
LA REGOLA DEI 40 PUNTI
«Rimettersi in gioco non è facile soprattutto a 65 anni – racconta Stamerra -. Dovevo capire come riuscire a penetrare nel loro mondo, mi serviva una chiave di accesso». Lo è stata il gioco della carte, quella che lui definisce “la regola dei quaranta punti”. «A Scala 40, infatti, avere in mano 40 punti è la condizione per poter aprire il gioco. Quindi, con quei 40 punti in mano, tu sei uno che può agire. Io ho cercato di far capire loro che, per riuscire nel loro progetto migratorio, dovevano conquistare questi 40 punti anche nella vita, attraverso il percorso scolastico ed educativo. E che dovevano affrontare questi percorsi da giovani adulti. Perché l’esperienza del viaggio intrapreso per raggiungere le coste italiane, li aveva già portati in un’altra dimensione. Una dimensione che, per loro, doveva rappresentare un valore, un elemento rafforzante». E così, con la filosofia dei 40 punti, Gianfranco è riuscito a creare un ponte, indirizzandoli ed esercitandoli anche al rispetto delle regole. «Le partite che facevamo a carte erano molto belle, ci sfidavamo a vari giochi, imparando varie regole di gioco. A volte interrompevo la partita e facevamo dei momenti di riflessione. Perché nelle carte, se non rispetti le regole, sei fuori dal gioco. E lo stesso succede nella vita. Eravamo tutti intorno ad un tavolo, in maniera paritaria, a dialogare. Mi vedevano come un nonno, con la saggezza che contraddistingue i nonni». Quel primo gruppo di minori da accudire è stata una palestra di vita per Gianfranco. «Uno di loro si è sposato, qualche tempo fa e mi ha invitato al suo matrimonio, a Milano. Sono andato e sembrava che tutti mi conoscessero. Persone mai viste ma a cui ero ben noto, perché lui parlava spesso di me. È questo il bello, sentire di aver dato qualcosa a questi ragazzi, di aver trasmesso loro dei valori, di averli accompagnati in un momento clou della loro vita». Gianfranco nel corso degli anni ha ospitato molti ragazzi. «Quarantacinque per la precisione, per lo più egiziani, ma anche pakistani, bengalesi, albanesi, marocchini». Non ci sono tempi di permanenza fissi. «Alcuni restano qualche anno, altri pochi mesi, dipende tutto da quando diventano maggiorenni», spiega Stamerra, abbassando lo sguardo.
I 18 ANNI
E quello che per la maggior parte dei giovani è il traguardo più agognato, il compimento della maggiore età, per questi ragazzi, diventa invece un grande salto nel vuoto. Perché in quel preciso momento escono dal sistema di accoglienza e dovranno dimostrare di farcela da soli. «Per alcuni di loro è una conquista, per altri ancora un momento triste; di certo si tratta di un momento di passaggio – racconta Stamerra -. Si cerca di indirizzarli al meglio, di prepararli ai problemi e magari
ai soprusi che si troveranno ad affrontare. Però non sempre si riesce. Sarebbe bello, in fondo, poterli proteggere per sempre, ma non si può. Sono particolari i giorni che precedono il compimento del diciottesimo anno. Li paragono a quella luce d’inverno, quando c’è quel sole pallido che, sì, ti fa vedere le cose, ma conferisce a tutto il contesto un qualcosa di malinconico. Ecco, è quella la sensazione alla fine di tutto».
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