Cogliere la bellezza di un oggetto, imparare ad amarne anche le imperfezioni dipende da ciò che per noi rappresenta e dal rapporto che abbiamo instaurato nel tempo.
È un periodo di cambiamenti felici. Giorgia (la coautrice di questa rubrica) si è sposata da poco, e fra tanti regali ne ha ricevuto uno particolarmente significativo: un anello con un’ametista luminosa, di un viola intenso. La pietra proveniva da un altro gioiello, ma si era danneggiata ed era stata messa da parte. Per lavorare con questo difetto, il gioielliere ha dovuto disegnare una struttura completamente nuova per l’anello: ora la pietra sembra quasi galleggiare nel vuoto, ed è ancora più bella di quando era integra.
Questa piccola vicenda ci ha ricordato un’arte giapponese chiamata ‘kintsugi’ che, come molte altre cose provenienti dall’Estremo Oriente, è diventata di tendenza negli ultimi anni. Consiste nel riparare ceramiche rotte usando lacca mescolata con polvere d’oro. La rottura e la riparazione diventano parte della storia di un oggetto, piuttosto che qualcosa da nascondere. La lacca dorata evidenzia le crepe invece di provare a cancellarle, dando nuova vita ad oggetti altrimenti destinati ad essere gettati via.
È un approccio strettamente legato al ‘wabi-sabi’, una parola che non ha equivalenti in italiano, un principio del buddismo zen legato alla capacità di accettare l’imperfezione e apprezzare la bellezza dell’effimero. Il fatto interessante è che è un principio etico tanto quanto estetico: al wabi-sabi si ispirano, tra le altre cose, l’arte dell’arrangiamento dei fiori, l’arredamento tradizionale, i giardini zen e la cerimonia giapponese del tè. Wabi-sabi significa prendere sul serio il mondo materiale, instaurando con esso una relazione basata sul rispetto e sulla cura. Tale relazione esprime un apprezzamento profondo dell’esperienza, della transitorietà e della bellezza che ne scaturisce.
Lo spirito del nostro tempo sembra oscillare tra un’ossessione per i beni materiali e un rifiuto, un’identificazione di tutto ciò che è materiale come un fardello di cui liberarsi. Propone quest’ultimo approccio il minimalismo, un movimento di grande popolarità sui social media i cui seguaci riducono i loro averi al minimo indispensabile, o il decluttering, la pratica, talvolta quasi ritualistica, di liberarsi delle cose inutili che abbiamo accumulato nel tempo, cui avevamo accennato già in un articolo di qualche mese fa.
La leggerezza esistenziale (di cui la riduzione dei beni materiali superflui è una buona metafora) è una dimensione auspicabile. Come per tutto però gli eccessi vanno evitati. Per l’integralismo minimalista ogni oggetto non strettamente necessario è una distrazione, e la soluzione al consumismo è l’indifferenza alle cose materiali, privilegiando ciò che materiale non è: valori, esperienze, relazioni. Per quanto sia un atteggiamento ammirevole, si fonda sulla più precaria e inaffidabile delle virtù umane: la moderazione. Pone troppa fiducia sul nostro senso del limite e talvolta si trasforma in una pratica ossessiva.
La cura invece è una virtù espansiva, che si esprime in positivo invece che per privazione. Se possiamo sicuramente imparare da un atteggiamento più aperto all’imperfezione e al cambiamento, forse possiamo imparare ancora di più rispetto a come ci relazioniamo agli oggetti. Conservare e manutenere (con criterio) gli oggetti ci permette di esprimere la nostra individualità, la nostra storia personale e familiare. Alcuni oggetti ci ricordano momenti felici della nostra vita: un viaggio lontano, un incontro, un’esperienza profonda con l’arte o con la musica.
Il rimedio alla patologia dell’accumulo può dunque essere non un’astratta (e per certi aspetti gelida) indifferenza quanto piuttosto un rapporto gioioso e di cura per alcuni oggetti carichi di significato.
La cura è una possibile soluzione perché richiede sforzo, impegno, dedizione come ogni rapporto affettivo. In questo modo pone un limite naturale al desiderio di possedere sempre più cose, che è senza dubbio dannoso per il nostro equilibrio.
Se invece di un’indifferenza spesso forzata, la soluzione fosse coltivare la cura e addirittura l’amore per le cose (alcune cose) che possediamo? Imparare a provare tenerezza, un’emozione all’apparenza incongrua, per gli oggetti, soprattutto quelli che mostrano i segni del tempo, potrebbe essere un antidoto rispetto alla nostra compulsione collettiva all’accumulo. Un apprezzamento profondo per l’individualità dell’oggetto, per le sue imperfezioni e per la sua e la nostra storia.
L’ha scritto benissimo, già all’inizio del secolo scorso, il designer giapponese Soetsu Yanagi nel suo La bellezza degli oggetti quotidiani, un saggio che appartiene alla tradizione wabi-sabi, ancora non tradotto in italiano: è il tempo che ci permette di apprezzare la bellezza di un oggetto, e persino di amarlo. La bellezza che vediamo in un oggetto dipende dal rapporto che abbiamo instaurato con esso, non dall’essere nuovo o preziosamente decorato. Le parole di Soetsu Yanagi sembrano più un auspicio che una constatazione: «Più un oggetto verrà utilizzato più diventerà bello, e più il consumatore lo userà più quell’oggetto sarà amato».
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
© Riproduzione riservata