La retorica del successo ottenuto solo grazie ai propri sforzi non riflette la realtà. Spesso, infatti, non c’è relazione tra lavoro duro e talento; contano anche la famiglia di appartenenza, il contesto sociale e, non ultimo, il caso
Quando Bill Gates aveva dodici anni la sua scuola, un istituto privato nei sobborghi di Seattle, comprò un computer. Era il 1968: a quel tempo non se ne trovavano molti nemmeno nelle università. Il dodicenne fu conquistato da quella nuova costosissima tecnologia, e iniziò a passare tutto il tempo libero nel laboratorio di informatica. Più avanti, quando la scuola esaurì i soldi per mandare avanti il laboratorio, Gates, che era ancora alle superiori, trovò lavoro in un’azienda di computer tramite il padre di un suo compagno. L’azienda finì in bancarotta, ma neanche questo fermò la sua passione. Con un suo amico scoprì che nel dipartimento di fisica dell’università di Washington c’erano computer che in certi orari non venivano utilizzati, e i due amici presero l’abitudine di entrare di nascosto per esercitarsi. Alla fine della scuola, Gates era già un programmatore esperto, in un momento storico in cui ce n’erano pochissimi.
Bill Gates si era trovato al posto giusto al momento giusto. Era andato a scuola in un istituto all’avanguardia. Il padre di un suo compagno l’aveva aiutato a trovare un lavoro nel campo che lo appassionava. Era cresciuto in una grande città americana e aveva avuto la fortuna di essere un adolescente nel momento in cui l’industria dei computer stava per esplodere. Se fosse nato dieci anni dopo, forse sarebbe stato un brillante fisico teorico o il fondatore di un’azienda di successo, ma non necessariamente un pioniere. Era un giovane dalle capacità straordinarie e aveva un impellente desiderio di imparare, ma fu quella serie di incroci fortuiti a far sbocciare il suo talento.
Siamo ossessionati dalle storie di individui eccezionali che hanno raggiunto il successo solo grazie al talento e al duro lavoro. È una narrazione che però ignora il ruolo importantissimo che hanno, nel nostro destino individuale, la famiglia e il luogo in cui nasciamo, il contesto storico e sociale, a volte anche il caso. È spesso anche un modo di giustificare diseguaglianze inaccettabili. Nel suo libro La tirannia del merito, il filosofo americano Michael Sandel la chiama “retorica dell’ascesa”: la promessa inesaudita per cui chi si sforza, rispetta le regole del gioco e lavora duramente può crescere fin dove lo porterà il suo impegno. La meritocrazia, sostiene il filosofo, è un modo di giustificare le diseguaglianze non tanto diverso dall’ideale aristocratico dello status che si eredita alla nascita.
In Italia, solo un individuo su dieci fra quelli che crescono in una famiglia a basso reddito riesce ad arrivare da adulto nella fascia di reddito più alta. La convinzione per cui chi arriva in cima ci riesce solo grazie ai suoi sforzi, è causa di un risentimento comprensibile tra chi non ce l’ha fatta. Quella convinzione, infatti, nella sua enfasi autocelebrativa, non tiene conto delle condizioni favorevoli che hanno portato a quel successo.
Chi sta in vetta diventa incapace di vedere la propria fortuna per quello che è. Questo forse spiega il cliché dei giovani privi di ambizione e voglia di lavorare, che torna particolarmente in voga all’inizio di ogni stagione turistica. Ha detto di recente un famoso cuoco e presentatore televisivo: «A me nessuno ha mai regalato nulla. Mi sono spaccato la schiena, questo lavoro è fatto di sacrifici, abnegazione. Invece oggi i ragazzi preferiscono tenersi stretto il weekend con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato e la pretesa di ricevere compensi importanti da subito».
La realtà è molto più desolante di così. I trentenni di oggi sono entrati nel mondo del lavoro durante una crisi economica devastante, mentre i ventenni hanno mosso i primi passi durante una pandemia che ha tolto il lavoro a un giovane su sei. A dispetto di chi addossa la responsabilità della loro carenza di prospettive al mancato desiderio di impegnarsi e lavorare sodo, i dati puntano a un problema sistemico. Anche tra i trentenni che lavorano, quasi la metà è povera, con un reddito tra gli 8mila e i 16mila euro all’anno.
Incolpare le persone di presunti fallimenti personali riduce il supporto a misure di welfare e impedisce di portare avanti un progetto di benessere collettivo. Equivale ad assolvere l’organizzazione sociale dalle proprie colpe, a spostare sull’individuo quelle che spesso sono distorsioni del sistema. La retorica della responsabilità personale non cattura la realtà di moltissime persone: spesso non c’è relazione tra lavorare duro e il successo, o anche solo la sicurezza economica.
Su questo, Sandel è drastico: «A condizioni di rampante disuguaglianza e di mobilità bloccata, ripetere il messaggio che siamo responsabili della nostra sorte e meritiamo quel che abbiamo erode la solidarietà e demoralizza i lasciati indietro dalla globalizzazione». In una società meritocratica la competitività diventa valore assoluto, a discapito di qualità come la gentilezza, l’immaginazione, il coraggio, la cooperazione. Doti indispensabili per essere buoni cittadini.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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