Quanto è importante e come si struttura il percorso formativo dei giovani che vivono in Paesi in via di sviluppo? Ne abbiamo parlato con Fra Biagio Graziano, Vicario Generale dei “Piccoli Fratelli dell’Accoglienza”, e con la dottoressa Alice Toschi, psicologa clinica dello sviluppo e psicoterapeuta transculturale in formazione.
Quante volte, in questi anni, abbiamo sentito parlare dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, quel programma d’azione diretto alle persone, al pianeta e alla prosperità sottoscritto dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU? I suoi 17 obiettivi dal settembre 2015 determinano i traguardi da raggiungere entro il 2030. Tra questi troviamo l’obiettivo 5 “Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”, l’8 “Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti” e il 10 “Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le Nazioni”. Tre punti strettamente collegati e riconducibili all’obiettivo numero 4 “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti” che, nel 2018, ha spinto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a proclamare il 24 gennaio come Giornata Internazionale dell’Educazione. Un tema importante, soprattutto in quei Paesi considerati del “Terzo Mondo” in cui le opportunità di apprendimento e formazione sono ancora limitate e spesso precluse a molti bambini. Tra questi Stati ci sono anche Egitto e Kenya che non solo fanno parte dei 193 Paesi membri dell’ONU, ma sono anche le realtà socioeconomiche che abbiamo esplorato intervistando chi supporta e ha supportato i giovani studenti dei sistemi educativi egiziani e kenioti.
A raccontare dell’Egitto è Fra Biagio Graziano, Vicario Generale dei “Piccoli Fratelli dell’Accoglienza”, un’Associazione Pubblica di Fedeli fondata dal Diacono Giuseppe Spampinato a Catania nel 1967. La realtà di Fra Biagio si è diffusa in breve tempo sull’intero territorio nazionale e successivamente ha portato la sua opera anche in diversi territori di missione, come Brasile, Filippine ed Egitto, dove tutt’oggi opera sostenendo un orfanotrofio femminile. «Dal 2004 la Domus Juventutis è presente sul territorio egiziano dove, in collaborazione con il Patriarcato Copto-cattolico, ha svolto numerose attività di apostolato; ha contribuito alla realizzazione di un ospedale nella città di Beni Suef con l’acquisto delle attrezzature mediche; ha realizzato un piccolo centro di accoglienza per pellegrini nella città di Zaitoun; ha restaurato e messo in funzione una struttura di accoglienza residenziale per minori (orfanotrofio femminile, n.d.r.) nella città di Ismailia, grazie ai benefattori presenti in tutta Italia e all’opera dei Cavalieri dell’Ordine Ospitaliero della Campana della Mater Juventutis – racconta Fra Biagio -. Da allora, l’Associazione impegna risorse per garantire una presenza costante e un servizio alla comunità di Ismailia, con uno o più fratelli missionari che affiancano il lavoro di tre sorelle consacrate residenti nel luogo. Sono loro ad occuparsi della cura e dell’istruzione delle 17 bambine e ragazze di età compresa tra i 9 e i 19 anni». Un compito arduo se si tiene conto delle difficoltà socioeconomiche presenti nello Stato: «Il sistema scolastico egiziano è costantemente minacciato dalle difficoltà economiche del Paese e dalle politiche di contenimento della spesa pubblica. Una diffusa disoccupazione intellettuale – dovuta a una radicale svalutazione dei salari degli insegnanti – e infrastrutture insufficienti a fronte di masse sempre crescenti rendono difficoltoso, soprattutto nelle zone rurali, l’accesso alla scuola pubblica per i soggetti più svantaggiati. Inoltre, il tasso di scolarizzazione elementare dei bambini supera di 13 punti quello delle bambine. È presente anche un sistema di scuole religiose: fanno parte di questa categoria le scuole coraniche come le scuole Azhar (istituto riconosciuto nel mondo arabo, n.d.r.) e altre scuole religiose cristiane, per la maggior parte cattoliche. Inoltre, una maggioranza delle scuole materne è privata. La nostra Associazione si occupa di garantire l’accesso all’istruzione pubblica e di colmare le eventuali lacune del sistema educativo con dei corsi di lingua e di religione, oltre a provvedere a tutte le necessità primarie delle bambine e delle ragazze».
Un’altra voce, quella della dottoressa Alice Toschi, psicologa clinica dello sviluppo e psicoterapeuta transculturale in formazione, racconta la realtà di alcune zone del Kenya. «Per quattro anni mi sono recata in Kenya come volontaria, a 250 km da Nairobi, presso la missione di Nairutia-Mugunda. Lì sono stata volontaria in un asilo privato in cui seguivamo circa 30 bambini: una classe numerosa ma comunque in misura minore rispetto a quanto non avvenga nelle scuole pubbliche. Le classi in quei casi possono essere composte anche da 50 bambini». Il sistema educativo keniota, infatti, è diverso da quello italiano, i bambini devono obbligatoriamente frequentare la scuola materna (all’età di 4/5 anni, n.d.r.) e prima di iniziare la scuola primaria devono sostenere un esame di idoneità. La scuola primaria dura otto anni, alla fine della quale il bambino deve sostenere un esame obbligatorio per accedere alle scuole superiori, che durano altri quattro anni e si concludono con l’esame finale. La valutazione degli studenti avviene trimestralmente, a differenza di quanto accade in Italia. «Quando mi sono recata negli asili mi sono occupata dell’insegnamento della lingua inglese ai bambini che normalmente lo parlano insieme alla loro lingua madre: lo swahili. Mentre nelle scuole superiori, durante l’ora di religione ed educazione civica, ho tenuto alcuni incontri rivolti ai giovani kenioti in cui veniva data loro la possibilità di fare domande sul sistema scolastico italiano, sullo sviluppo delle relazioni sentimentali in età adolescenziale, sugli usi e i costumi di un’altra società, ed è stato molto arricchente. Si stupivano, ad esempio, quando raccontavo loro che nel nostro Paese accade frequentemente che un ragazzo o una ragazza portino a casa propria il partner per presentarlo ai genitori anche prima del matrimonio». Una conoscenza dell’altro che aiuta a capirsi e a comprendersi, e cerca di accorciare le distanze proprio perseguendo quegli obiettivi tracciati dall’Agenda 2030. Eppure, alcune delle caratteristiche sociali e geografiche del Kenya rendono complicati alcuni passaggi. «Quando si parla di percorso formativo e quindi di ampliamento delle conoscenze, bisogna tenere conto di alcune difficoltà che dipendono anche dalla posizione geografica del Paese. Trovandosi sulla linea dell’equatore, infatti, i kenioti vivono dodici ore di luce e dodici di buio: quest’ultime sono ore in cui non c’è elettricità quindi non esistono computer o strumenti tecnologici che per noi sono la quotidianità. Inoltre, spesso i costi per lo studio sono elevati e completamente a carico delle famiglie. In alcuni casi possono aiutare le adozioni a distanza che, però, sono indirizzate solo a bambini che frequentano le scuole pubbliche e possono utilizzare quelle somme per comprare divise e materiali per l’apprendimento come libri o quaderni. Comunemente si pensa, invece, che i bambini delle scuole private non ne abbiano bisogno, ma spesso frequentano scuole costruite con lamiere e materiali di recupero in cui ogni aiuto, economico o materiale, è altrettanto importante». D’altronde, secondo alcune stime risalenti al 2017, una scuola privata in Kenya costa 45mila scellini all’anno (circa 400 euro), con una quota d’iscrizione per il primo anno di 3.000 scellini e una quota libri di 5.000. Inoltre, ogni anno il costo sale di 3.000 scellini circa, facendo dedurre che per far studiare un alunno keniota per 4 anni e portarlo verso un lavoro di un certo livello può costare più o meno 2.000 euro. Una cifra enorme se pensiamo che uno stipendio medio in Kenya equivale a 360 euro al mese e ogni famiglia ha in media 3 figli da sostenere a livello educativo.
Ma i problemi legati all’istruzione, a livello internazionale, diventano ancora più impegnativi quando si parla di migranti e minori non accompagnati. «Quest’anno mi sono occupata di supporto psicosociale a minori stranieri non accompagnati, organizzando anche laboratori psicoeducativi mirati ad una migliore conoscenza di sé e dell’altro che si sono svolti con gli ospiti dei centri di accoglienza – ha raccontato la dottoressa Toschi -. I ragazzi che arrivano in Italia dalla Siria, dalla Libia o da altre parti del mondo, infatti, spesso sono analfabeti e viaggiano da soli o con famiglie svantaggiate. Parliamo di numeri importanti se pensiamo che nel 2021 i minori migranti erano circa 10.000 e di questi 5.000 avevano 17 anni. Questo costituisce un problema nel momento in cui arrivano nel nostro Paese poiché la scuola dell’obbligo prevede la frequenza fino ai 16 anni e dopo quell’età ogni istituto può scegliere se ammettere studenti più grandi o meno. Il risultato è che questi ragazzi spesso frequentano corsi in cui imparano la lingua, ma non seguono alcun programma che insegni loro una professione o li instradi verso il mondo del lavoro, lasciandoli a fare i conti con un futuro difficile da affrontare».
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