Insieme si vince è il nuovo libro di Vittorino Andreoli, il più famoso psichiatra italiano. È l’affermazione, articolata e approfondita, di come oggi la “lotta per l’esistenza”, indicata dall’evoluzionista Charles Darwin come imperativo per tutti gli esseri viventi, non sia più reale. E di come a quel paradigma bisogna sostituirne un altro: il senso dell’esistenza è la cooperazione.
Le nuove scoperte scientifiche e gli approfondimenti psicologici permettono al professor Andreoli, membro della New York Academy of Sciences e autore di numerose pubblicazioni, tra cui l’interessante Lettera a un vecchio (da parte di un vecchio), di ipotizzare una nuova evoluzione umana basata non sulla lotta, ma sulla condivisione e sul rapporto, sul compromesso e sulla serenità. Sull’agire insieme, sulla cooperazione.
Il sottotitolo del suo ultimo libro è La forza della cooperazione nella nostra vita. Ci spieghi qual è questa forza?
Oggi domina la lotta. Io invece contrappongo il bisogno di cooperazione a un principio che risale fino a Darwin, che, nel 1859, ne L’origine delle specie sostenne che è sempre in atto una lotta per sopravvivere che risponde a tre imperativi. Il primo è quello dell’alimentazione, il secondo quello di un luogo, di un territorio, di una difesa, e il terzo è la continuazione della specie. Io sono un evoluzionista, però la teoria darwiniana aveva un significato in quel periodo storico.
Oggi non è giustificata, perché nella nostra società non siamo più guidati dagli istinti ma dai desideri. Per dimostrarlo basta dire che non c’è più un problema di alimentazione, anzi c’è quello di ridurre il cibo, di guardarne la qualità. Il problema del territorio, di avere un luogo dove stare, non esiste più, perché ognuno ha un proprio privato, tutti ne parliamo. E l’altro elemento non è attuato nelle nostre società dove nessuno più vuol generare, poiché sa che è difficile educare, è costoso, è pericoloso. Allora io sostengo la tesi che sarebbe ora di sostituire questa teoria legata agli istinti, che vale per le società che non hanno raggiunto il nostro grado di sviluppo economico-sanitario, con una legata ai desideri, che appartengono alla sfera di ciò che noi possiamo scegliere e che possiamo rifiutare.
Attualmente vale il principio di non definire più la vita come una lotta, ma come un’esperienza importantissima che è possibile gestire con la cooperazione. Cooperazione è un termine molto bello. Vuol dire “fare insieme”. Questo principio dovrebbe modificare il livello di lotta che osserviamo nella nostra società, dove si vivono le cronache che ascoltiamo tutti i giorni, le guerre. La lotta è talmente penetrata nella nostra abitudine che arriva fino all’educazione dei bambini, che “devono essere forti” per sapersi imporre sull’altro. In qualsiasi settore, compreso il lavoro, c’è sempre sotto sotto una lotta. Io mi occupo di comportamento e di persone che stanno male. Le garantisco che in questo periodo la richiesta più semplice, ma molto espressiva, che ricevo è “professore come facciamo a vivere un poco meglio?” Non se ne può più della lotta. dei conflitti.
Lei afferma che l’uomo è la specie più imperfetta, se la si osserva sul piano della coerenza comportamentale e su quello della vita sociale. C’è una speranza di miglioramento, anche se oggi, come dice il Presidente Mattarella: “Il mondo peggiora per gli sciagurati comportamenti umani”?
Io parlo addirittura di regressione di civiltà. Non mi occupo di mutare le società, osservo le persone e le posso garantire che possono cambiare dalla sera alla mattina. Basta una relazione nuova. Basta un’esperienza che possa dare in qualche modo fiducia. Non c’è dubbio che l’uomo può cambiare e non c’è dubbio che il principio dell’imperfezione, che è meglio chiamare il principio della fragilità – che non è debolezza, è il senso del limite che ciascuno di noi avverte -, ci spinge ad aver bisogno dell’altro e a cercare dei legami. È una maniera diversa per parlare di cooperazione.
Cosa dovrebbe mettere in campo, proporre, attivare, l’associazionismo per migliorare la partecipazione a una cooperazione positiva per i singoli e per la comunità?
Bisogna passare dall’io al noi. Nella nostra società domina l’io, il narcisismo, io io io. Siamo centrati tutti sul sé, sul mostrare che si è più forti dell’altro. Invece il vero pronome che bisogna usare per vivere serenamente è noi, perché non c’è mai un attimo nella nostra esistenza in cui siamo io. Il bambino che nasce ha bisogno di una madre che lo accolga, di qualcuno che lo riscaldi, che lo nutra. Non c’è mai questa esaltazione dell’ego.
Bisogna che le associazioni, ma anche la famiglia, dove spesso ci sono conflitti, debbano insegnarci che si ha sempre bisogno dell’altro. Come l’altro ha bisogno di noi. Questa visione è così vera che si può definire l’amore come l’insieme di due fragilità, che però insieme danno la forza di vivere.
Questo bisogno dell’altro, di cooperare, di unirsi, aumenta con l’età oppure è perenne durante tutta l’esistenza dell’individuo?
Il considerare la vita una lotta sta rovinando la nostra società. Un conto è l’io di una persona comune, un conto è quello di personaggi che occupano un grande potere. Questo principio può sconvolgere la nostra modalità di vita. Mai come in questi ultimi anni, non solo per il covid o le guerre, si era arrivati a un’esasperazione dell’io e del potere. Non dell’autorità, proprio del fare perché lo posso fare, perché ho le bombe da scagliarti contro.
La cooperazione è già stata applicata, ma oggi va proprio vista come l’antagonista della lotta. Se il significato originale che la vita è lotta – per sopravvivere bisogna lottare, per avere potere bisogna toglierlo a qualcun altro – è dentro di noi, allo stesso modo sappiamo fin dalle origini che l’alternativa è proprio il fare insieme. Ai tempi di Darwin c’era uno studioso, il russo Pëtr Alekseevič Kropotkin, che già affermava come non ci sia nulla che dimostra la necessità della lotta invece del cercare di mettersi d’accordo, di trovare una qualcosa che vada bene per l’insieme delle persone.
Come conseguenza ecco una parola che a me piace moltissimo: compromesso. So che non c’è nessun giornalista che la usi, è come se fosse il demonio. Invece è bellissima, perché vuol dire che da due visioni su uno stesso tema diverso è possibile trovare una visione comune. Oggi se qualcuno dice A il gruppo opposto deve dire B anche senza sapere qual è il tema. C’è proprio questa conformazione nel nostro pensiero.
Le associazioni operano benissimo, specie se non sono solo un’utilità economica ma diventano un fattore esistenziale. Devono usare questa parola, cooperazione, per esistere, per esistere in modo tranquillo. Sa che oggi il 14% della popolazione è depressa, vuol dire che ha sofferto di un episodio clinico non che è semplicemente triste. Un 18% di persone soffre di disturbi d’ansia. Un 5-6% sono persone maniacali e c’è un 5% di paranoici, un 2% di schizofrenici. Siamo oltre il 50%.
È l’atmosfera di insicurezza, di paura, la sofferenza, la fatica di vivere, la continua frustrazione in cui viviamo che ci riduce a questo. Siamo insicuri. Non ci fidiamo più e buttiamo via i sentimenti. Non ci rendiamo conto che è proprio l’insieme a darci sicurezza. La sicurezza è sempre affettiva. Il denaro non risolve l’insicurezza, è questo il riferimento principale. Sono il bisogno dell’altro e la paura di essere soli. Per questi non serve la lotta, non serve la oggi dominante cultura del nemico. Lei va per strada e, fino a prova contraria, chi incontra è un nemico. E come fa? Non sorride più. Attraversa la strada, cambia marciapiede e, avendo di fronte un nemico, ha paura.
Sto lavorando a questo libro da tanti anni, avrà notato anche le note che non finiscono mai. E mi sono reso conto che, se si vuole che cambino le società, non saranno i politici o i ricchi, i Musk, gli Zuckerberg a farlo. Noi abbiamo bisogno di vivere nel quotidiano e non di sentirci bersagliati, di sentirci odiati. Le mie non sono teorie. Vivo in mezzo alle persone e sento che la gente sta male, non ce la fa, deve nascondersi per paura di crollare, di andare giù. E in una società della lotta quanto più quanto più si è deboli tanto più si è vittime. Io sono vecchio e contento di esserlo, ma non ho mai visto un periodo in cui la gente soffriva così del male di esistere. Una volta si era preoccupati della malattia, adesso ci si preoccupa perché non si riesce a stare tranquilli.
La stessa tecnologia, che all’inizio sembrava dovesse aiutarci per adattarci meglio all’ambiente attorno e in qualche modo a migliorare la socialità, è diventata un qualcosa che punta sostituire la nostra mente. Quali rischi corriamo?
Io non sono contro le tecnologie, ma contro l’uso delle tecnologie. Avendo le persone paura, sentendosi insicure, vanno davanti a un video, il cui vantaggio è la possibilità di schiacciare un pulsante e passare ad altro quando c’è qualcosa che non ci piace. Questo allontana dalla realtà. Se andiamo a casa e troviamo il nonno che non ci piace, non possiamo premere un tasto. È diventata una tecnologia non della soluzione dei problemi ma della fuga: una grande delusione.
C’è un grande autore, Noam Chomsky, adesso ha più di 90 anni, che ha scritto un libro molto bello che parla non dei padroni delle cose, ma dei padroni dell’umanità. Ormai siamo arrivati a queste 30 persone che dominano tutto. Pensi che, per studiare l’intelligenza artificiale, Zuckerberg ha assunto 30.000 scienziati. Quale Stato potrebbe farlo? Pensi all’Italia: come farebbe ad assumerli? Questi personaggi sono quelli che ormai guidano tutto, e allora ci sentiamo sempre più piccoli, non sappiamo più cosa faranno i nostri figli. Ed ecco l’insicurezza e tutto quello che ci siamo detti.
Lei scrive: “La condizione del vecchio è di poter godere gratuitamente della nostalgia, che si definisce un viaggio dentro i ricordi, dentro il passato. In questo capovolgimento del tempo, di un viaggio che si compie all’indietro, si incontra soprattutto il dolore.” Ci dà veramente poche prospettive a noi over…
Non è così. Il dolore di esistere, la fatica di vivere fa parte dell’imperfezione dell’uomo. L’uomo è quell’animale così umano che sa comporre versi bellissimi, come il canto XXXIII del Paradiso, ma sa anche avere delle forti delusioni e pensare di morire.
Con queste parole volevo elogiare la bellezza della nostalgia. La nostalgia è un viaggio dentro il nostro passato e qualche volta finiamo anche per inventarlo, per raccontarlo un po’ migliore di come è stato. Adesso nessuno pensa più al passato. Gli adolescenti non sanno che cos’è il passato e in più non guardano al futuro. Un vecchio deve raccontarsi per quello che è, per quello che ha fatto. Addirittura, viaggiando nei ricordi, finisce per far scoprire ciò che altri stanno dimenticando. Non voglio fare un quadretto della vecchiaia falso, però il vecchio può fare tante cose, ama la pace, vorrebbe aiutare i giovani, vorrebbe raccontarsi. E qualche volta nella solitudine va alla ricerca di una storia, perché ognuno di noi è una piccola storia.
Non trovo così spaventoso neppure parlare di dolore. Io vivo più di ricordi che presente. Anzi vivo più di morti che di vivi, mio padre, i miei fratelli, mia madre. È bellissimo che il vecchio sia legato al passato quando i giovani non ne vogliono più sapere. I giovani guardano solo il tempo presente, mentre io vorrei raccontare parte della mia vita ai miei nipoti e anche ai giovani. Non è una vita solo di gioie, ma ha attraversato anche molti dolori. È proprio questa percezione che deve portarci a dire “e allora come facciamo a vivere meglio?”. E a risponderci che dobbiamo volerci bene con gli altri, che dobbiamo sapere che l’altro ci serve, che in un gruppo, in un’azienda, in un’associazione, bisogna che tutti siano insieme.
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