Intervista a Simona Lanzoni, vicepresidente della Fondazione Pangea: «Gli accordi stipulati con la partecipazione delle donne hanno il 35% di probabilità in più di durare almeno 15 anni. Eppure, costituiscono solo il 2% dei mediatori e l’8% dei negoziatori»
Guerra e pace sono donne: perché nell’una come nell’altra, sempre le donne svolgono un ruolo chiave. E se non è più vero che la guerra la fanno gli uomini – con un numero sempre crescente di soldatesse, negli eserciti di grandi potenze – è invece sempre vero che i processi di pace, o almeno la costruzione e la conservazione di una speranza di pace, è spesso in mano alle donne. Ne è convinta testimone Simona Lanzoni, che conosce bene le zone di guerra e sa cosa significhi lavorare per far vincere la pace. Vicepresidente della Fondazione Pangea, opera in diverse parti del mondo – soprattutto in Afghanistan, India e Nepal, Sudafrica, Repubblica democratica del Congo -, spesso con le donne e per le donne locali, costruendo insieme a loro processi di pacificazione, di liberazione, di partecipazione e di emancipazione da ogni forma di discriminazione e violenza. È quindi a lei che chiediamo di riflettere sul ruolo della donna nelle zone di conflitto, a partire dalla loro condizione di “vittime sproporzionate”.
“Circa il 75% di coloro che vivono una crisi umanitaria sono donne e bambini: donne di tutte le età, che vengono colpite in modo diverso e spesso sproporzionato sia dai disastri che dai conflitti violenti” (fonte: Women and Girls in Internal Displacement – Joint Data Center).
Eppure, proprio loro rimangono un pilastro di queste società: da un lato perché sono dedicate alla cura della prole, degli anziani o delle persone fragili, dall’altro perché di solito sono le ultime a lasciare i luoghi a cui sono legate. Ciò blocca la loro vita in una condizione in cui la fragilità si unisce al bisogno di farsi forti.
In che modo, a partire da questa condizione di estrema fragilità, le donne possono “farsi forti”?
Unendosi tra loro, dando vita a vere e proprie reti di sostegno, che quasi sempre travalicano le differenze, le religioni o le etnie di appartenenza, le ideologie che portano a conflitti lunghi e sanguinosi. Essere donna nelle guerre significa così costruire una rete sociale e di solidarietà, ma anche partecipare alla resistenza della speranza. Significa, insomma, diventare agenti di politica dal basso, sia sostenendosi tra loro, sia facendo arrivare la propria voce fuori dal proprio paese: penso a tante donne che in Afghanistan, in Sudan e in tante altre zone del mondo hanno preso la parola, denunciando le violazioni che subiscono e chiedendo un cambio di passo alla comunità internazionale. Al tempo stesso, sono le donne a tenere i fili con coloro che sono riusciti a fuggire, restando in contatto con le cosiddette diaspore.
All’interno delle organizzazioni internazionali e della cooperazione internazionale, lavorano molte donne. Riescono, almeno in questo ambito, ad accedere a ruoli di responsabilità?
L’agenda “Donne, Pace e Sicurezza (Wps)” è stata formalmente avviata dalla storica Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 31 ottobre 2000. Questa riconosce l’importante ruolo delle donne nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti e nelle iniziative di costruzione della pace: un ruolo di partecipazione e sviluppo nei conflitti e di mediazione ai tavoli di pace. Ciononostante, ad oggi le donne hanno costituito solo il 2% dei mediatori, l’8% dei negoziatori e il 5% dei testimoni e dei firmatari in tutti i principali processi di pace. Eppure è provato che la partecipazione diretta delle donne ai negoziati di pace aumenta la sostenibilità e la qualità della pace: gli accordi stipulati con la partecipazione delle donne hanno il 35% di probabilità in più di durare almeno 15 anni. La domanda a questo punto è: la comunità internazionale vuole veramente la pace?
Che ruolo hanno le donne nella vostra organizzazione?
Il nostro motto è “La vita ri-parte da una donna”: sappiamo che le donne sono moltiplicatrici di condizioni di benessere e di pace. Per questo lavoriamo con le donne in tutti i nostri progetti. E si vede! I figli e le figlie delle donne sostenute da Pangea sono oggi giovani adulti con maggiori opportunità e maggiore fiducia in sé stessi, grazie all’esempio ricevuto dalle madri.
Nei contesti in cui lavorate – l’Afghanistan in particolare – la donna è spesso vittima di regole e regimi discriminatori e repressivi. In che modo reagiscono?
Sono depresse, si sentono sole, isolate e abbandonate: il silenzio della comunità internazionale è agghiacciante. Le donne cercano di mantenersi in contatto tramite internet ma non sempre è possibile. La frustrazione e l’isolamento degenerano facilmente in problemi di salute mentale, di fronte ai quali dobbiamo intervenire al più presto!
Pensa che le donne possano mettere in campo competenze e capacità particolari nella costruzione di processi di pace?
Assolutamente si, perché anche attraversare il dolore è una competenza: conoscerlo, viverlo e risvegliarsi ogni giorno trovando la forza di continuare è una competenza immensa, che tanti chiamano resilienza. Ecco, per me questa è proprio la forza delle donne.
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