«Quando mio figlio e mia figlia erano piccoli, per me stare con loro era una gioia. Senza dolermene avevo lasciato il lavoro – ero una specie di super segretaria della capa del personale di una grossa azienda – per dedicarmi a crescerli: Stefania aveva pochi mesi e Alessandro due anni. Dopo il congedo di maternità avevo tentato di cavarmela con il part time, ma poi avevo mollato. Mi ero licenziata prima che Alessandro festeggiasse il suo terzo compleanno. Mi ricordo come se fosse ieri la faccia scontenta della capa: “Lei fa un grandissimo errore, mia cara. Ora sacrifica la sua carriera per i suoi figli, appena avranno quindici o sedici anni le volteranno le spalle, vorranno stare soltanto con i loro amici e poi cresceranno ancora e si faranno una famiglia loro e di lei non ne vorranno più sapere. Purtroppo io non sarò più qui ad aspettarla”. Mi ricordo che uscii turbata da quel colloquio finale. Forse aveva ragione lei, forse stavo sbagliando… ma quando arrivai a casa, Alessandro mi corse incontro con le piccole braccia tese per aggrapparsi a me, Stefania mi dedicò uno dei suoi primi incerti sorrisi e scacciai ogni preoccupazione. Amavo i miei bambini, i miei bambini mi amavano e avevano bisogno di me».
La lettera è lunga, circostanziata e convincente.
Mi ha ricordato la mia giovinezza, gli anni difficili e meravigliosi dei figli piccoli che piangono quando te ne vai e ti aspettano vicino alla porta.
Era doloroso, uno strazio tutte le volte.
Per due o tre anni ho fatto avanti e indietro fra Roma e New York per girare, con il mio compagno, dei documentari sugli italo-americani. Lasciavo mio figlio a mia madre.
Lo portavo a Torino o a Sanremo e lo mollavo. Dopo tre giorni incominciavo a piangere di nostalgia.
Tornavo. Restavo per un po’. Ripartivo. Era un conflitto interiore continuo. Desideravo che lui diventasse grande per non sentirmi più così in colpa quando andavo a lavorare.
Poi il tempo è passato.
Per me, per la lettrice che ci ha scritto, Maria Teresa.
La sua piccola Stefania ha 41 anni, adesso, e Alessandro 43.
Stefania è sposata, senza figli. Alessandro ha una figlia, ma è separato e la figlia sta con la madre.
I rapporti con entrambi sono buoni ma “freddi”, è questo l’aggettivo che Maria Teresa usa per descrivere la sua malinconia.
Poche telefonate. Un po’ di attenzione soltanto se lei cade e si fa male, o si prende una brutta influenza.
Non è che non le vogliano bene, ma non hanno nessun desiderio di stare con lei.
E quando si incontrano, a Natale, ai compleanni, l’abbraccio distratto, di routine, per compiacerla, lei lo sente e ne fa una malattia.
Le capita spesso di pensare alla sua antica capa.
Pensa che aveva ragione, che l’infanzia duri un niente, che diventi marginale e poi superflua nel giro di pochi anni.
Hai cresciuto un essere umano, l’hai curato, seguito, cullato, sgridato, educato, protetto e che cosa ti rimane fra le mani quando diventa grande? Un bacio distratto. La telefonata in cui, alle tue domande, un po’ ansiose, il figlio risponde con educati monosillabi. Tutti quei sì certo” e “bene grazie” che suonano come campane a morto su quella che è stata la relazione più importante della tua vita.
Che dire? Purtroppo è vero, cara Maria Teresa: aveva ragione la capa del personale. Non bisogna sacrificare tutto ai figli. La maternità è un sentimento durevole e perciò un po’ mostruoso: tu continui ad amare i tuoi cuccioli anche quando sono quasi vecchi, loro sono presi dalle loro vite e ricambiano quel minimo. C’è una sproporzione inevitabile fra l’investimento libidico che si fa per diventare genitori e l’investimento che ti costringi a fare su chi ti ha generato, essendo figlio o figlia.
Tutto è dovuto, quello che hai dato, quello che continui a dare.
La gratitudine meglio non aspettarsela proprio.
Del resto: eri grata a tua madre quando eri ragazza, quando eri una giovane donna con figli bambini?
La ringraziavo mia madre quando le mollavo il mio cuccioletto duenne e me ne volavo a New York?
Non mi pare. Eppure le volevo bene. E ora mi manca immensamente.
Cara Maria Teresa, se posso darti un consiglio, punta tutte le tue carte sulla nipotina: se riesci a farla ridere, a farla dormire, se la fai giocare, se le fai mangiare tutta la merenda, potrebbe arrivarti quel sorriso lungo e grato, di cui senti la mancanza da decenni.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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