Dalla vendita dei dischi allo streaming e il ruolo delle etichette discografiche: ritratto della trasformazione di artisti e melodie
Un luna park dalle fragili fondamenta. E dove gli artisti rischiano di diventare bersagli da buttar giù con il tiro a segno. Benvenuti nel padiglione della musica italiana del Terzo Millennio, una fiera delle illusioni in cui tanti teen-idol si arrendono presto, senza essere protetti dalla discografia e men che meno dagli impresari. Effetto inevitabile del cambiamento epocale avvenuto a cavallo del nuovo secolo, quando l’avvento di internet e più tardi dei social ha spazzato via l’approccio tridimensionale dell’industria delle canzoni, fatto sino ad allora di rapporti artigianali e della paziente ‘costruzione’ di personaggi in grado di occupare le classifiche o di inventare percorsi autorali di valore. Il Duemila si apre già orfano di figure mitologiche come Lucio Battisti e Fabrizio De André, presto se ne va anche Giorgio Gaber. Numi tutelari di una linea espressiva alta, che però non rinnegava la cantabilità, elemento fondante del pop nazionale. Gli altri grandi del filone cantautorale degli Anni ’70-’80 del Novecento andranno poi, inevitabilmente, a presidiare gli slot dell’autocelebrazione, del reducismo, fino ad oggi.
Baglioni, Venditti, De Gregori li trovi tuttora in questo circo da live senza sosta, e senza la reale volontà di un addio. Attorno ai senatori, resiste la generazione dei cinquantenni e più, quelli che da ragazzi erano riusciti a infilarsi nell’ultimo varco praticabile del ‘successo’ solido, meglio se esportabile in Europa o Sudamerica: Ferro, Pausini, Nannini, Ramazzotti, Zucchero, Jovanotti. ‘Prodotti’ senza più scadenza di garanzia: puntano sul marchio e sulla gavetta fatta a vent’anni, prima che la virtualità spalancasse l’abisso in cui sono precipitati troppi emergenti di belle speranze. Il Ventunesimo secolo della musica italiana è infatti costruito sull’illusione di potercela fare sfangandola in un talent tv, l’“uno-su-mille” che si crede arrivato quando a una finale di XFactor, Amici o The Voice i fari lo illuminano: invece è proprio quello il momento in cui gli incoronati dai televoti andrebbero accompagnati dentro la foresta delle insidie. In vent’anni di talent, gli iscritti ai provini sono stati centinaia di migliaia. Un esercito di cantanti e gruppi, moltissimi interessanti, quasi tutti tornati rapidamente nell’ombra. E non solo i bocciati.
Quanti sono emersi, pure senza il trofeo tra le mani? Pochi: Emma, Alessandra Amoroso, Elodie, Annalisa, Noemi, Angelina Mango, i The Kolors. Breve la parabola ascendente di Marco Carta e Valerio Scanu, che hanno fatto in tempo a prendersi i loro Sanremo, così come i Maneskin. Ecco, Damiano & Co, sparati verso le stelle dall’Ariston, con la tappa decisiva dell’Eurofestival e il colpo grosso della presa del mondo (con tanto di endorsement della vecchia guardia r’n’r, a partire da Mick Jagger), costituiscono il più clamoroso paradosso della musica italiana contemporanea: una band tricolore (‘allenata’ a XF da Manuel Agnelli, il colonnello del rock alternativo anni Zero degli Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena) che rovescia il comune sentire del ‘sanremismo’ fondato sull’aerea genialità del Volare modugnesco – o del melodismo ai confini del trash e oltre – occupando con spavalderia gli spazi sacri del business d’oltreoceano. L’irripetibile fenomeno Maneskin: ragazzini romani a via del Corso, con il cappello sul marciapiede, da lì fino al sogno hollywoodiano.
Dove, però, la loro ‘americanizzazione’ è un pegno che toglie identità, li sfibra, li induce a uno stop. Se sono ancora insieme si vedrà dopo la parentesi solista di Damiano (rimodellato verso il power-pop alla Harry Styles) con tanto di tour planetario. Quanto a Sanremo, dal Duemila a oggi, il tempio della leggera ha saputo omaggiare l’autorialità con le vittorie degli Avion Travel, Elisa, Cristicchi, Vecchioni, Diodato, Fabrizio Moro & Ermal Meta. O consentire un cambio di passo verso il meglio del nuovo, vedi Mahmood, Mengoni, la Mango, lo stesso ‘perdente’ Ultimo. Ma non è una riverniciatura definitiva e più nobile del Festival: nel tempo, siamo stati afflitti da Povia o da Il Volo.
La kermesse sanremese non è però l’unica mostra di merce pregiata della filiera: nell’area cantautorale, qualcosa di pregevole lo hanno mostrato con continuità i vari Silvestri, Fabi, Gazzè, Brunori SAS, Bersani, Mannarino, Capossela, Calcutta, Carmen Consoli, Cristina Donà, Levante. Riecheggia il vintage della ‘Italodisco’, da Gigi D’Agostino a Gabry Ponte. I rapper si sono quasi sempre persi dentro lo specchio del bad-boy di periferia, ma tra Fabri Fibra, Marracash e Lazza qualcosa può essere salvato. Il resto è narcisismo da streaming sulle piattaforme (miliardi di ascolti, poca sostanza e scarsi guadagni), la tecnica del ‘feat’ dove ognuno duetta con qualcun altro per sommare le rispettive ‘fan base’: scarsa inventiva, il piattume da copia e incolla, gli stadi per concerti sovradimensionati, l’irrefrenabile discesa nel buco dei tormentoni esotici, l’incubo del reggaeton ovunque sia.
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