Qualche giorno fa la FDA (Food and Drug Administration) ha annunciato l’approvazione di un nuovo farmaco per l’Alzheimer. Il suo nome commerciale è Aduhelm, il principio attivo è aducanumab, si somministra una volta al mese per via endovenosa.
È indubbiamente una “notizia bomba”. É da quasi vent’anni che non entravano in commercio trattamenti per i pazienti affetti dalla malattia neurodegenerativa. Ma non è ancora del tutto chiaro se si tratti di una buona notizia. Una parte della comunità scientifica, compresi gli esperti del comitato nominato dalla stessa FDA per valutare l’efficacia del farmaco per l’Alzheimer, ha sollevato non poche perplessità sulla decisione dell’ente regolatorio statunitense. Cerchiamo di capire perché.
La decisione dell’FDA sul farmaco per l’Alzheimer
Aduhelm prodotto dalla farmaceutica americana Biogen è un anticorpo monoclonale che dovrebbe rallentare il declino cognitivo associato all’Alzheimer. Abbiamo volutamente usato il condizionale “dovrebbe” perché la sua efficacia è a tutti gli effetti ancora un’ipotesi. Non ci sono, infatti, prove certe dei benefici del farmaco sulle funzioni cerebrali di chi lo assume. Come è possibile allora che aducanumab sia stato approvato?
L’FDA ha utilizzato una procedura accelerata che consente di dare il “nulla osta” al commercio anche in base a prove di efficacia indirette. Il nuovo farmaco, alla fine di un iter sperimentale un po’ travagliato tra interruzioni, riprese e risultati contraddittori, ha dimostrato di ridurre nel cervello dei pazienti l’accumulo delle placche della proteina beta amiloide che è considerato tra le possibili cause del deterioramento cognitivo.
I membri dell’FDA hanno ragionato seguendo la logica del sillogismo: se aducanumab riduce le placche di beta-amiloide e se le placche di beta amiloide sono la causa del declino cognitivo, allora il farmaco riduce il declino cognitivo. L’efficacia è stata cioè dimostrata in maniera indiretta.
Le critiche degli scienziati al farmaco per l’Alzheimer
La decisione dell’FDA non è stata presa certamente a cuor leggero. “I dati inclusi nella presentazione del richiedente erano molto complessi e lasciavano incertezze riguardo ai benefici clinici. Ma il farmaco è stato approvato con procedura accelerata per fornire un accesso anticipato a terapie potenzialmente preziose per i pazienti con malattie gravi dove c’è un bisogno insoddisfatto e dove c’è un’aspettativa di beneficio clinico nonostante qualche incertezza residua riguardo a tale beneficio», ha dichiarato Patrizia Cavazzoni direttrice del Centro per la valutazione e la ricerca sui farmaci della FDA.
Si è pensato cioè che quella “ragionevole probabilità di successo” attribuita alla terapia fosse meglio di niente per chi soffre di Alzheimer. Il che da una parte è sicuramente vero. Ma c’è il rovescio della medaglia. C’è chi teme che la decisione dell’FDA possa condizionare la ricerca di futuri farmaci, con il rischio che la scoperta della tanto agognata cura definitiva dell’Alzheimer resti sempre più un miraggio. E ciò potrebbe accadere per due ragioni.
D’ora in poi altre aziende farmaceutiche avranno la tentazione di rinunciare all’obiettivo principale delle sperimentazioni puntando sulle prove di efficacia indiretta, che consentono comunque l’autorizzazione. Tutti gli sforzi potrebbero venire impiegati per valutare la capacità dei farmaci di ridurre le placche di beta amiloide, piuttosto che per testarne direttamente i benefici nel rallentare il declino cognitivo.
C’è poi un altro problema: finora non ci sono prove schiaccianti che le placche di beta amiloide siano associate al declino cognitivo. E se ci fossero altri bersagli più importanti da colpire? Gli scienziati temono che la mossa dell’FDA suoni come un invito ad avviare le ricerche in una sola direzione perseguendo l’potesi delle beta-amiloidi come l’unica possibile.
Addio sperimentazioni
L’altra obiezione è di natura pratica. Uno degli ostacoli principali alla ricerca di nuovi farmaci per l’Alzheimer è la difficoltà di reclutare per le sperimentazioni pazienti nella fase precoce della malattia, con danni al cervello ancora potenzialmente reversibili. Per ora intervenire all’origine della malattia sembra l’unica strada per combattere l’Alzheimer. Ma le diagnosi precoci di Alzheimer sono molto difficili. Generalmente la malattia viene riconosciuta dal clinico alla comparsa dei primi sintomi, quando già le funzioni cognitive sono irrimediabilmente compromesse. Ecco perché è tanto difficile trovare i partecipanti “ideali” delle sperimentazioni, pazienti con una malattia allo stadio molto precoce.
Tutto ciò, dopo l’approvazione di aducanumab, potrebbe addirittura diventare impossibile. Mettiamoci nei panni di una persona a cui è stato appena diagnosticato l’Alzheimer, in fase precoce quando c’è ancora una possibilità di intervenire. Il paziente in questione si trova di fronte a due opzioni: assumere l’unico farmaco in commercio che promette di rallentare il declino cognitivo oppure immolarsi per la scienza partecipando alla sperimentazione di un nuovo farmaco con la possibilità tra l’altro di finire nel gruppo che riceve il placebo. Voi che fareste?
Per la Biogen è una vittoria di Pirro?
La stessa Biogen, l’azienda produttrice di aducanumab, potrebbe avere difficoltà a reclutare i pazienti per la fase 4 della sua sperimentazione che gli è stata imposta dalla FDA. L’ente regolatorio ha infatti obbligato l’azienda a condurre una sperimentazione post-marketing per verificare che il farmaco riduca effettivamente il declino cognitivo. Per farlo avrà bisogno di reclutare persone con Alzheimer disposte a rischiare di finire nel gruppo di controllo che assume un placebo. Non sarà facile. Potrebbe riuscirci ricorrendo a volontari di altre nazioni, dove il farmaco non è ancora disponibile. Ma Biogen ha già avviato la richiesta per l’approvazione di aducanimab in Europa, Giappone e Brasile. Comunque sia potrebbero volerci anni prima di arrivare alla verità su aducanimab.
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