Secondo un recente studio, circa la metà della Generazione Z e il 40% dei Millennial provano ansia e stress. Un fenomeno che spesso sfocia in uno stato di fatica cronica dovuto soprattutto allo stress lavorativo.
C’è una crisi di salute mentale che non possiamo più ignorare. Secondo una ricerca di Deloitte, che ha coinvolto oltre 22.000 persone in 44 Paesi, quasi la metà della Generazione Z e il 40% dei Millennial riferiscono di provare molto spesso ansia e stress, con le donne a guidare questa tendenza. Sono numeri allarmanti, soprattutto quando questi fenomeni sfociano nel burnout, uno stato di fatica cronica dovuto principalmente allo stress lavorativo, uno sfinimento che causa incapacità di portare avanti le attività quotidiane.
Non è chiaro se le ultime generazioni ne soffrano più di quelle precedenti, o siano solo più consapevoli del proprio disagio. Sicuramente su questo disagio incidono una sensazione di insicurezza cronica, una crescente consapevolezza rispetto alle disuguaglianze sociali, le paure legate al cambiamento climatico e alle tensioni geopolitiche, i timori per l’instabilità economica.
Ventenni e trentenni sembrano anche essere più inclini a riconoscere il proprio dolore, chiedere aiuto e mostrarsi vulnerabili. Probabilmente è merito della maggiore sensibilità culturale a questi temi, di un lessico che gli permette di definire il loro malessere. La difficoltà è reale. Ma le persone sono anche più disposte a comprenderla.
Secondo lo studio di Deloitte, una delle principali cause del declino nella salute mentale dei giovani risiede nel mondo del lavoro. La mancanza di equilibrio e spazio dedicato alla vita personale, le responsabilità e i carichi eccessivi, spesso dovuti alla mancanza di personale, una cultura aziendale che favorisce il presenzialismo e una competizione serrata sono alcuni dei fattori possibili. Una mentalità aziendale arretrata e poco flessibile rende difficile ammettere debolezze o vulnerabilità. Soprattutto quando le posizioni lavorative sono precarie e ogni passo falso può mettere a rischio l’impiego.
Nonostante i progressi fatti per sradicare lo stigma associato alla salute mentale, esso persiste ancora sul luogo di lavoro, dove trascorriamo la maggior parte della nostra vita adulta. È difficile ammettere di aver bisogno di giorni di malattia a causa dei sintomi dovuti ad un malessere di natura psicologica, o richiedere, quando necessario per queste ragioni, la possibilità di lavorare da casa. Se la malattia mentale inizia ad essere paragonata a quella fisica – con l’idea che non vi è nulla di vergognoso in essa – l’ufficio rimane un ambiente in cui questa prospettiva fa fatica ad affermarsi. Secondo la ricerca di Deloitte, oltre la metà di coloro che hanno preso giorni di malattia per problemi di salute mentale non hanno rivelato il vero motivo dell’assenza. Difficile immaginare uno scenario simile per un’influenza, un braccio rotto o una brutta emicrania.
Alcuni fenomeni che sono emersi dopo la pandemia, diventando sempre più rilevanti, possono essere compresi all’interno di un contesto diffuso di disagio lavorativo. Uno di questi è il quiet quitting letteralmente, il “licenziarsi in silenzio” l’“abbandono silenzioso”. L’espressione si è diffusa partendo dai social media e, come antidoto allo stress cronico, propone di fare solo il minimo indispensabile, limitandosi a rispettare i requisiti minimi e gli orari stabiliti dal proprio contratto, ma evitando di assumersi ogni ulteriore responsabilità o impegno. Ciò potrebbe significare non intervenire durante le riunioni, non offrirsi volontario per compiti aggiuntivi e rifiutarsi di fare gli straordinari. In pratica, limitarsi allo stretto necessario per evitare di perdere il posto.
È la manifestazione di una più ampia tendenza a rifiutare il successo professionale come fulcro dell’esistenza. A rifiutare la premessa stessa che valga la pena prendere sul serio le dinamiche lavorative, l’ambizione, il desiderio di scalare le gerarchie. Una forma di difesa da dinamiche considerate insalubri, ma che allo stesso tempo mostra un’allarmante rassegnazione rispetto allo status quo, un ripiegarsi in soluzioni individuali, minuscole, e l’incapacità di immaginare un miglioramento se non collettivo, perlomeno personale.
Il sintomo più preoccupante e sistemico è forse questo: la rassegnazione. Scegliere di abbandonare la propria professione licenziandosi o praticarla facendo il minimo indispensabile, può essere una risposta razionale a uno stato d’ansia persistente o allo stress che si è accumulato nel tempo. Provare rimedi quali la psicoterapia, l’uso dei farmaci o la meditazione è sano e auspicabile. Ma perché non siamo capaci di concepire prospettive migliori? Un problema così comune non può essere solo individuale, come sembra a chi è in preda a un malessere profondo e solo apparentemente solitario, ma richiede un ripensamento del modo stesso in cui viviamo. Bisogna essere capaci di tornare a coltivare un’immaginazione collettiva. Un altro modo per chiamare la politica, nella sua accezione più nobile: l’unico vero rimedio alla rassegnazione.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
© Riproduzione riservata