Il jamais vu è il fenomeno che ci fa sembrare sconosciuto un fatto, una circostanza, un evento che viviamo quasi ogni giorno ed è l’opposto del déjà vu.
Non tutti i vincitori del Premio Nobel l’avrebbero meritato. Alcune assegnazioni si sono dimostrate, con il senno di poi, azzardate e discutibili. Citiamo ad esempio, quelli per la medicina conferiti nel 1948 allo svizzero Paul Hermann Müller per aver scoperto l’utilità del DDT (che pochi anni dopo si scoprì cancerogeno per l’uomo) contro malaria e tifo e l’anno successivo al portoghese Antonio Egas Moniz, autore della prima lobotomia medica controllata.
Premio IgNobel per la letteratura
Lo stesso, inevitabilmente, succede di tanto in tanto per gli IgNobel, i premi che, un po’ scherzosamente, un po’ snobisticamente, l’Università di Harvard ospita, assegnati dai satirici Annals Of Improbable Research alle ricerche meno utili e più strampalate effettuate nel mondo. Uno di questi è stato assegnato lo scorso anno al team franco-malesiano-britannico-finlandese, formato da Chris Moulin, Nicole Bell, Merita Turunen, Arina Baharin e Akira O’Connor, per, secondo la motivazione ufficiale, «lo studio delle sensazioni che le persone provano quando ripetono una sola parola molte, molte, molte, molte, molte, molte, molte volte».
Il quotidiano, questo “sconosciuto”
In realtà la ricerca internazionale non è così stramba da meritare un simile sberleffo. Perché il jamais vu, così denominato in contrapposizione con il “classico” dèjà vu (la sensazione di aver già sperimentato, vissuto un evento in realtà del tutto inedito), è l’impressione di non aver mai affrontato una situazione che ci è invece quotidiana, di percepirla come estranea benché ci sia del tutto nota, di vederla con “occhi nuovi” come fosse la prima volta. Una sorpresa che, come affermano i ricercatori in un articolo sulla rivista The Conversation, è spesso legata, quasi per contrappasso, alla lunga esposizione e/o ripetizione di parole e concetti.
Se dal punto di vista dell’analisi medica siamo nel campo delle prime ipotesi – dello stesso déjà vu, studiato molto più a lungo, non si conoscono le reali cause né l’origine neurale – da quello della percezione di questo fenomeno siamo stati un po’ tutti sperimentatori. Un esempio su tutti: trovarci in un parcheggio mai visto, che è esattamente quello dove abbiamo depositato l’auto poco tempo prima.
Quando non l’abbiamo “jamais vu”
Cosa lo causi, data la sua imprevedibilità e quindi l’impossibilità di un’analisi strumentale mentre ce ne rendiamo conto, rimane un mistero. L’ipotesi più accreditata e più semplice è che sia legato a qualche tipo di malfunzionamento del sistema della memoria. Però potrebbe anche evidenziare l’operatività del nostro cervello, che sottopone una parola, un luogo, una persona, un avvenimento conosciutissimi a una sorta di test di realtà, per assicurarsi che sia tutto in ordine. Sarebbe un “meccanismo di sicurezza” che viene attivato in alcune circostanze dalla criticità innescata per lo più dal ripetersi ritenuto eccessivo di una situazione.
Infatti, le esperienze di jamais vu, intese come perdita momentanea di familiarità e/o di significato di fattori noti, derivano per lo più dal ripetere un gesto, dall’osservare un oggetto o dal leggere una parola a lungo, quasi ossessivamente. Questo perché, affermano ancora i ricercatori, il nostro sistema cognitivo è duttile e insieme concentrato, flessibile e insieme vigile, e si è sviluppato con l’input di non affrontare per troppo tempo compiti ripetitivi. Quando si trova costretto a farlo, perché qualcosa è diventato «troppo automatico, troppo fluido, troppo ripetitivo», scattano al suo interno delle “spie” che lo inducono a compiere le verifiche necessarie a valutare se tale attività sia la più consona di cui occuparsi. Allo stesso modo, ma con i termini invertiti, funzionerebbe il déjà vu, tant’è che i due modi opposti di sentire sono più frequenti nelle medesime persone.
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