Siamo, involontariamente, vittime di pregiudizi. Molte volte ci facciamo confondere dall’aspetto fisico gradevole e non riusciamo ad essere obiettivi con i meriti e le competenze altrui. Un problema ancor più importante quando si tratta di preconcetti di genere.
Sapete cos’è l’«effetto alone»? Non è il titolo di un seminario per venditori di detersivi. È una categoria sociologica che si può descrivere così: se una persona ha una qualità positiva molto evidente, questa influenza il modo in cui la persona è percepita dal prossimo.
Per esempio i belli vengono di regola considerati anche intelligenti, sensibili e spiritosi. La questione non è accademica, e soprattutto non è innocua. Numerose ricerche hanno accertato che in un processo, l’imputato viene giudicato in modo più favorevole se è attraente. I belli vengono assolti molto più facilmente e, se condannati, ricevono pene più miti. I testimoni e le testimoni attraenti e curati nell’aspetto vengono ritenuti più credibili; quelli trasandati e meno attraenti vengono guardati con maggior diffidenza. I candidati politici hanno più probabilità di vincere le elezioni se sono fisicamente attraenti e hanno una voce piacevole.
Ma funziona anche al contrario. Le persone intelligenti in media sono considerate più belle, con un’interessante precisazione. I partecipanti di uno studio dovevano giudicare, solo sulla base di fotografie, le doti intellettuali e l’aspetto fisico di uomini e donne che venivano loro mostrati. I maschi risultavano più attraenti quando venivano percepiti anche come intelligenti, mentre per le donne l’intelligenza sembrava non avere un impatto né positivo né negativo.
L’effetto alone non riguarda solo l’aspetto delle persone. Anni fa un gruppo di psicologi realizzò un esperimento: gli stessi compiti di esame furono scritti in doppia copia e consegnati a due gruppi di esaminatori. La prima copia era in bella grafia, la seconda no. La media dei voti assegnati ai compiti in bella grafia fu molto più alta rispetto a quella dei voti assegnati ai compiti scritti con una grafia poco elegante o sciatta, questo anche se a tutti gli esaminatori era stato raccomandato di non tenerne conto e di concentrarsi solo sul contenuto degli elaborati. La morale della storia sembra essere che, nel dubbio, è sempre meglio scrivere al computer.
Una versione diversa dell’esperimento ha avuto esiti più preoccupanti. Gli stessi temi furono presentati con firme maschili a un primo gruppo di esaminatori e con firme femminili a un secondo gruppo. Gli elaborati con firme maschili ottennero sempre voti più alti. L’effetto alone è un pericoloso vettore dei nostri pregiudizi.
Un altro esperimento ancora ha dimostrato come persino gli scienziati, che in teoria dovrebbero essere più immuni dai condizionamenti emotivi, siano soggetti a grossolani errori, vittime quanto tutti noi dei propri preconcetti. Alcuni articoli scritti da importanti ricercatori e pubblicati da prestigiose riviste scientifiche furono copiati, con leggere modifiche, e inviati di nuovo alle stesse riviste con nomi di ricercatori sconosciuti. Gli articoli erano gli stessi, le riviste erano le stesse, però, nella stragrande maggioranza, furono respinti. Non perché qualcuno si fosse accorto che erano già stati pubblicati, ma perché furono considerati scientificamente mediocri.
In generale, non siamo bravi a determinare la competenza di chi abbiamo davanti o la qualità oggettiva di un lavoro, una mancanza che non ha necessariamente a che fare con la poca esperienza sul campo. Un esempio incredibile viene dal mondo dell’editoria. Nel 1969 il romanzo Steps di Jerzy Kosinski – rispettato scrittore americano di origine polacca – vinse uno dei più importanti premi letterari americani e ricevette grandi elogi dalla critica. Otto anni più tardi, un tizio in vena di scherzi ricopiò a macchina il romanzo e spedì il manoscritto – come fosse un inedito, con un titolo diverso e sotto un nome falso – ad alcune delle più conosciute agenzie letterarie americane e a quattordici case editrici, inclusa quella che a suo tempo aveva dato alle stampe l’originale. Nessuno si accorse dell’inganno – dovevano tutti soffrire di cattiva memoria – e il manoscritto venne giudicato inadatto alla pubblicazione.
È capitato anche in Italia, quando una scrittrice si è voluta divertire mettendo in piedi un’analoga burla. Si è rivolta a una sedicente agenzia letteraria che offre – a pagamento – l’editing, cioè la revisione, di romanzi e racconti. Ha pagato la somma richiesta e ha inviato un racconto che, qualche tempo dopo, le è stato restituito con annotazioni critiche, correzioni, modifiche. Il giudizio complessivo non era favorevole: il testo era descritto come acerbo, poco letterario, carente di stile. Peccato che si trattasse di un racconto piuttosto famoso e celebrato di Dino Buzzati.
Notizie non rassicuranti per i non belli, per quelli con una cattiva grafia, per le donne, per i ricercatori sconosciuti e per gli aspiranti scrittori in cerca di un editore. A questi ultimi conviene ricordare l’insegnamento di Somerset Maugham. Lo scrittore inglese era solito dire che ci sono tre regole infallibili cui attenersi per scrivere un romanzo di grande successo. Sfortunatamente – aggiungeva – nessuno sa quali siano.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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