Al di là dei dati preliminari e dei dibattiti televisivi, la sorte delle elezioni americane dipende da sette Stati-chiave. Rischiano di decidersi per pochi voti e forse, oltre il voto, nelle aule dei tribunali.
Il professor Gregory Alegi (nella foto, a destra), docente di Storia e Politica degli USA alla LUISS di Roma, segue da molti anni le fibrillazioni che puntualmente accompagnano le elezioni presidenziali americane. A pochi giorni dall’election day del 5 novembre, il suo sguardo è quello di chi va oltre le apparenze: i numeri e le dichiarazioni che colonizzano i media, i ragionamenti che ristagnano sulla superficie del problema. La sua avvertenza preliminare riguarda l’onnipresente strumento dei sondaggi: “In America i sondaggi valgono quello che valgono. Non molto, ad essere sinceri. Il campione consultato è piccolo rispetto alla vastità e alla varietà della popolazione degli Stati Uniti. In più le rilevazioni vengono effettuate sui potenziali votanti: bisogna capire quanti di questi voteranno effettivamente”.
Elezioni USA: non è solo una questione di volontà degli elettori
La questione non riguarda solo la volontà dei cittadini. “A quanto risulta da alcune fonti”, spiega il professor Alegy, “ i repubblicani stanno cercando di ripulire le liste elettorali, impedendo ad alcuni di votare. Si tratta di centinaia di migliaia di votanti, che potrebbero spostare l’esito delle consultazioni”.
Ma non è l’unica insidia ‘tecnica’ che incombe sul verdetto delle urne. Alegi ricorda gli strascichi giudiziari del 2020, che stavolta potrebbero essere ben più ampi e complessi: “È verosimile che anche stavolta ci saranno ricorsi sui risultati delle votazioni. E saranno meno estemporanei, più scientifici, meglio organizzati. L’esito delle elezioni rischia di restare in sospeso per un po’ di tempo. La consapevolezza di questa possibilità sta portando soprattutto i democratici a sollecitare gli elettori, per spingerli a votare in massa anche negli Stati dove già godono di un consistente vantaggio, onde evitare sorprese. Ma in generale il pensiero che la contesa possa risolversi non alle urne, ma nelle aule dei tribunali, demotiva fortemente gli elettori”.
Più ideologia che contenuti: il confronto è strumentalizzato
La lotta tra la democratica Kamala Harris, vice-presidente subentrata in corsa al presidente in carica Joe Biden, e il repubblicano Donald Trump, che cerca la seconda clamorosa elezione dopo quella del 2016, appare serrata e concentrata su alcuni temi chiave come l’economia, lo scenario internazionale (a cominciare da Israele e l’Ucraina) e i problemi interni come quello dell’immigrazione dal Messico. Alegi ha un’idea piuttosto chiara in merito: “Il confronto si fonda sull’ideologia più che sui contenuti. O meglio, si discute dei contenuti perlopiù strumentalmente, per avvalorare una scelta sulla persona. Si guardi alla recente questione degli uragani… Trump ha criticato l’inefficienza dell’amministrazione di Biden senza una ragione concreta, con l’effetto però di creare apprensione nella gente. Il risultato è che il presidente ha fatto saltare un vertice del gruppo di Ramstein sull’Ucraina, restando in patria per rassicurare gli elettori”.
Il tema caldo dell’immigrazione
Il problema immigrazione, con la frase di Trump sugli immigrati che mangiano gli animali domestici degli abitanti delle città di confine, sembra esercitare una certa influenza sull’opinione pubblica. “In realtà”, precisa il professor Alegy, “la frase sugli animali domestici è stata pronunciata dal candidato alla vicepresidenza, James Vance. Quando gliene hanno contestato l’infondatezza, Vance ha rivendicato il diritto a inventare storie per mettere in risalto il dramma di alcuni cittadini americani. Il punto è proprio questo: una volta i fatti erano fatti e le opinioni erano (legittime) opinioni, ora anche i fatti vengono messi in dubbio e diventano opinioni. Come è possibile un dialogo serio su queste basi?”.
Kamala Harris e lo spostamento degli equilibri
L’ingresso sulla scena di Kamala Harris ha peraltro spostato gli equilibri della contesa, come Alegi riconosce: “Devo confessare che io non ero molto favorevole al cambio, per il poco tempo a disposizione del nuovo candidato. L’avvicendamento ha rivitalizzato gli elettori democratici, senza dubbio: Harris trasmette maggiore energia. Ha poi impostato la sua campagna secondo una linea razionale e intelligente: votatemi per la mia piattaforma politica, dice, non perché sono una donna. La lezione di Hillary Clinton, che aveva molto puntato sull’identità di genere nel 2016, le è servita, orientandola verso una scelta secondo me più avveduta e moderna. Quanto al programma, ribadisce sostanzialmente quello di Biden, laddove Trump si ripropone come un candidato fuori dalle righe. Ma la sua credibilità è minata, la lucidità a volte vacilla e l’argomento età, sfruttato contro Biden, ora gli si ritorce contro. Quanto peseranno queste considerazioni? Non molto, forse, in un Paese fortemente ideologizzato e polarizzato; ma forse quel tanto che basta a spostare gli equilibri negli Stati in bilico”.
Sette Stati tengono in bilico le elezioni in USA
Sono questi ultimi la chiave di volta per determinare il risultato delle elezioni. “Non dimentichiamo”, dice Alegi, “che le presidenziali americane non sono elezioni nazionali, ma cinquanta elezioni statali in cui i candidati devono conquistare i delegati di ciascuno Stato. Alcuni Stati sono molto sovra rappresentati: cioè hanno un numero di delegati maggiore di quello che spetterebbe alla loro popolazione. È in questi che si gioca la partita. Lasciamo perdere i voti totali e i sondaggi nazionali: nelle ultime quattro elezioni i democratici hanno sempre avuto più voti complessivi, ma una volta hanno perso la presidenza. Nel 2016 Hillary Clinton ha perso per meno di 100.000 voti in alcuni Stati chiave. Stavolta ce ne sono sette in bilico: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Arizona, Georgia, Nevada e North Carolina. È lì che tutto si deciderà”.
(Foto apertura: Tada Images/Shutterstock.com)
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