Ogni giorno, decine di lavoratori subiscono infortuni o incidenti gravi. Senza dimenticare il fenomeno delle malattie professionali
La Costituzione Italiana riconosce al lavoro un ruolo fondante: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” recita, in maniera semplice e chiara, l’articolo 1. L’articolo 4, poi, riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. E l’articolo 35 sancisce la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Eppure, la sensazione è che in molti casi, anziché essere un valore, il lavoro diventi un “problema”, non solo quando – e perché – non c’è (gli ultimi dati OCSE parlano di un tasso di occupazione del 57%, dieci punti percentuali al di sotto della media europea), ma anche quando c’è e genera un rischio.
In Italia (ma, purtroppo, anche in molti altri Paesi altrettanto avanzati), nel 2021 di lavoro, infatti, troppo spesso si muore e in troppi casi si compromette la salute o si perde l’integrità fisica, con le conseguenze che ne derivano, non solo dal punto di vista sanitario ed economico (per il lavoratore vittima di infortunio, per la sua famiglia che vede ridursi una fonte di sostentamento, per l’azienda, per i costi che ne derivano alla collettività), ma anche nella sfera psicologica e delle relazioni sociali del lavoratore infortunato (cosiddetto “danno biologico”).
Gli infortuni sul lavoro assurgono di tanto in tanto agli “onori” della cronaca, soprattutto quando si verificano casi mortali eclatanti che commuovono e indignano, come la tristemente nota tragedia delle acciaierie ThyssenKrupp di Torino del dicembre 2007. Senza dimenticare il caso della giovane operaia pratese uccisa qualche mese fa dal macchinario dell’industria tessile in cui stava lavorando, su cui i media si sono gettati per alcuni giorni con un’attenzione quasi morbosa, salvo spegnere i loro riflettori quando il caso non era più “caldo” e ormai tutti i risvolti della vita della vittima – il rapporto con la madre e con il figlioletto, le foto felici e spensierate con le amiche pubblicate sui social la sera precedente l’incidente, a fare da contrasto con la sua tragica fine – erano stati adeguatamente “esplorati”. Il tema della sicurezza sul lavoro, allora, è tornato nell’ombra, materia per i soli addetti ai lavori: magistrati, industriali, sindacati, ispettori del lavoro.
Ma, anche se molti di loro non conquistano la ribalta mediatica, i morti sul lavoro sono, purtroppo, una costante quotidiana: nei primi 7 mesi del 2021, già 677 casi mortali (e il dato non può ancora ritenersi consolidato, in quanto, ad esempio, potrebbe non essere ancora entrato in statistica un certo numero di casi mortali da Covid-19, per i quali il decesso avviene dopo che è trascorso un periodo più o meno lungo dal contagio), cioè una media di più di 3 morti al giorno; erano stati 1.538 nell’intero 2020 (4 al giorno; questo dato risente ovviamente dei 600 casi mortali per infezione da Covid-19) e 1.205 nel 2019 (poco più di 3 al giorno).
È scioccante fermarsi a pensare che di tutti i lavoratori che ogni mattina escono per andare al lavoro, statisticamente, ogni giorno 3 o 4 di loro non faranno più ritorno a casa.
Ma le cosiddette “morti bianche” sono solo una parte del problema: nei primi sette mesi del 2021 sono stati denunciati complessivamente 312.762 infortuni (+ 8,3% rispetto allo stesso periodo del 2020, prevedibile effetto della ripresa delle attività produttive dopo il “fermo” dovuto all’emergenza sanitaria da Covid-19 e il massiccio ricorso allo smart working attuato nel 2020); erano stati complessivamente 571.198 nel 2020 (dato che sconta il minor numero di ore lavorate a causa dell’emergenza sanitaria) e 644.993 nel 2019.
Numeri drammatici. Certo, molti di questi infortuni si risolvono fortunatamente con un periodo di inabilità temporanea più o meno lungo o con conseguenze permanenti di entità trascurabile o lieve. Una parte, tuttavia – quelli di maggiore gravità – cambiano per sempre la vita delle persone che ne sono rimaste vittima e delle loro famiglie: un infortunio grave costituisce un vero e proprio dramma personale e familiare, che le garanzie e le prestazioni di tipo economico, sanitario, protesico, riabilitativo e di ricollocamento lavorativo previste dalla Costituzione (articolo 38), possono riuscire solo ad alleviare, ma non certo a sanare.
La discussione su quali siano le possibili soluzioni per ridurre questo fenomeno è aperta da tempo, così come la ricerca delle relative responsabilità. Di volta in volta, viene puntato l’indice su un impianto normativo inadeguato, su datori di lavoro negligenti o addirittura dipinti come cinici e votati solo al profitto, che non si interessano della sicurezza dei lavoratori, su lavoratori stressati da turni massacranti o imprudenti, sull’eccessiva confidenza con i macchinari e con i processi produttivi che fa abbassare il livello di attenzione, sulla mancanza di formazione, su macchinari non a norma o con apparati di sicurezza rimossi per esigenze produttive, su un insufficiente esercizio del potere di vigilanza da parte delle figure previste dalla legge (Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza in primis), sulla carenza dei controlli ispettivi.
E poi, ci sono le malattie professionali, fenomeno in gran parte ancora sommerso a causa dei vincoli – non solo normativi, ma anche “culturali” – che ne frenano la denuncia, il riconoscimento e, in definitiva, la piena emersione; nonostante questo, nei primi sette mesi del 2021 l’INAIL ha ricevuto comunque ulteriori 33.865 denunce di patologie derivanti dall’esercizio di attività lavorativa (erano state 44.955 nell’intero 2020 e 61.201 in tutto l’anno 2019).
Insomma: è bene che sui tavoli governativi nei quali si discutono le grandi riforme di questo autunno, ovvero la riforma fiscale, quella delle pensioni, quella degli ammortizzatori sociali e quella delle prestazioni assistenziali, vi sia uno spazio adeguato anche per la materia della sicurezza in occasione di lavoro. Perché la vita e la salute sono diritti fondamentali che non possono essere subordinati a nessun altro diritto o interesse.
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