Incomincerò da una toccante citazione di Guerra e Pace. Se non l’avete mai letto leggetelo, c’è dentro tutto il mondo.
“Il principe Andrej non soltanto sapeva di dover morire, ma si sentiva morire, sentiva già d’essere morto a metà. Egli aveva la coscienza di essere estraneo ad ogni cosa terrena e di sperimentare una lieta e strana facilità ad esistere. Senza fretta e agitazione aspettava ciò che gli sarebbe toccato. Quella cosa minacciosa, eterna, sconosciuta e lontana, la cui presenza non aveva mai cessato di sentire durante tutta la sua vita, ora gli era vicina e – per quella strana facilità ad esistere che provava – gli era quasi comprensibile e sensibile”.
Nel suo maestoso romanzo, Lev Tolstoj così racconta un uomo di fronte alla morte: il principe Andrej, ferito gravemente nella battaglia di Borodino, nella guerra contro Napoleone, pur provando “una strana facilità ad esistere”, o forse proprio perché finalmente la prova, si lascia morire, nonostante le cure affettuose di Sonja.
La vecchiaia degli uomini, nella letteratura, si misura quasi sempre in distanza dalla morte. Nella letteratura, perciò, l’uomo invecchia a qualsiasi età. Anche quando è molto giovane. Diverso e più concreto si fa il discorso quando si parla della vecchiaia delle donne. Perché le donne assai più degli uomini devono fare i conti con il corpo, sono innanzitutto corpi, le donne. Il corpo delle donne è stato, fin dalla notte dei tempi, l’involucro che spinge il maschio ad accoppiarsi con la femmina e la specie a perpetuarsi. Deve essere bello, attraente, desiderabile. Come la livrea primaverile di certi uccelli. Il corpo della donna è al servizio della specie. E la donna che lo abita deve averne cura, mantenerlo fresco, migliorarlo, usarlo per ricevere status, un tetto sulla testa, nutrimento per sé e per i figli.
Il corpo delle donne è bottino di guerra quando gli uomini si combattono fra loro. Oggetto del nemico per sfregio, per disprezzo, per imporre la sua legge, per sottolineare la sua supremazia, per torturare psicologicamente gli avversari. Attraverso il corpo della donna si celebra la vittoria, si enfatizza la sconfitta, si esaspera l’odio. Le cose sono cambiate molto meno di quanto amiamo pensare. Basterebbe il ritmo tragico dei femminicidi a ricordarcelo. Il corpo delle donne è e resta un oggetto. Continua ad essere un oggetto. Anche se nessuno osa dirlo apertamente.
Il corpo può essere una condanna, per le donne, signoreggia sulle loro vite, la fa da padrone. E questo da subito. Sempre e per sempre. Fino alla fine. Finché sono stati soltanto gli uomini a pubblicare romanzi e poemi (non a scrivere, a pubblicare) il corpo delle donne è stato luminoso e perfetto, giovane e voluttuoso. Mai vecchio, mai grasso, elegante nella malattia, adorabile nella morte.
Da quando sono le donne, sempre più spesso, a scrivere romanzi e a pubblicarli, il corpo femminile è raccontato, sempre più spesso, come un problema, come il responsabile di un cronico senso di inadeguatezza, come una fonte di sofferenza mentale. Sia il corpo/piacere della sensualità realizzata, sia il corpo/limite della malattia e della vecchiaia. Il corpo è la parte di sé con cui la donna è costretta ad identificarsi. Le piaccia o no. Sempre. Ascoltate la voce di una delle madri fondatrici del femminismo anglosassone: “Ogni donna sa bene che, a prescindere da tutti i traguardi che possa avere conseguito, se non è bella è un fallimento. Sa anche che, per quanto bella possa essere, la bellezza, giorno dopo giorno, furtivamente, la abbandona. Fosse anche dotata della bizzarra avvenenza delle top model, le cui immagini vede riprodotte intorno a sé fino al punto di esserle più famigliari dei lineamenti della propria madre, non sarà mai bella abbastanza. Ci saranno sempre parti di lei inadeguate: le ginocchia, i piedi, i glutei, i seni. (…) È un essere umano, non una dea né un angelo”.
Così l’australiana Germaine Greer, saggista, femminista, scrive nel suo La donna intera, 1999, pubblicato in Italia da Mondadori nel 2000. C’è un nome per la malattia che descrive: Body Dysmorphic Disorder, BDD. È la Sindrome dismorfica che avvelena la vita delle adolescenti quando si ammalano per essere più magre e delle “anziane” quando devono fare i conti con tragedie come la “prova costume” o le rughette sopra le labbra meglio note come “codice a barre”.
Anche se le donne sopra i sessanta sono sempre di più, il modello di bellezza resta fissato ai 23 anni. Agli uomini nessuno chiede di restare giovani e belli per tutta la vita. Alle donne sì. Noi donne dobbiamo vestire per 86 anni (tale è la nostra prevista media longevità) la livrea degli oggetti di desiderio. Vi pare giusto?
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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