La crisi e gli investimenti sbagliati hanno rischiato di far chiudere per sempre una storica fabbrica di abbigliamento. Ma un gruppo di coraggiose dipendenti, quasi tutte over 50 e con una grande esperienza di lavoro sulle spalle, è riuscito a riscattarla. E neppure la pandemia le ha scoraggiate. Noi siamo state in Veneto per conoscerle e per farci raccontare la ricetta del loro successo.
L’esperienza, talvolta, salva. Le cadute spaventano, più spesso, fortificano. È il mix unico – e auspicabilmente ripetibile – che ha segnato la storia di un posto speciale in Veneto: il Centro Moda Polesano. Una fabbrica salvata dalle donne. Donne di grande esperienza, mediamente tutte over 50.
La loro storia inizia quarant’anni fa, dentro questi capannoni in cui si producono abiti. Non abiti qualunque, ma capi confezionati per le più grandi maisons al mondo. Italiane e straniere. Arriva però il 2016, e per via della crisi e investimenti sbagliati, l’azienda da cui nasce il Centro Moda Polesano chiude. Rischiano di restare a casa oltre sessanta tra operaie e impiegate. Tra di loro ci sono le giovani – poche – e le tante con anni di esperienza alla spalle. C’è chi cuce, chi ricama, chi assembla, chi si occupa di vendita e chi di amministrazione. Tutte a un passo dal perdere il lavoro.
«Paura?», chiediamo a una di loro – Claudia Tosi, 52 anni, oggi presidente della cooperativa -. «Tanta», risponde. Ma non c’era alternativa: o si salvava la fabbrica o ognuna se ne sarebbe tornata a casa. Eppure, in questa storia che oggi possiamo raccontare camminando tra le macchine da cucire che non si fermano un istante, le incognite ci sono state e non sono state neppure poche.
L’esperienza, però, e una certa caparbietà hanno fatto la differenza. Dopo lo sconforto iniziale, infatti, questa donne hanno deciso di non arrendersi. Sapevano di avere capacità acquisite negli anni e hanno giocato la carta del riscatto, tanto più che il mercato del lavoro, nella provincia veneta, non avrebbe potuto offrire loro altre grandi opportunità.
Così, si sono rimboccate le maniche e hanno costituito una nuova cooperativa che di fatto ha rilevato l’azienda. È da lì che è nato il Centro Moda Polesano. Ma, per riuscirci, le venti lavoratrici che hanno accettato la sfida – alcune hanno lasciato – hanno rinunciato all’assegno di disoccupazione, utilizzato come capitale sociale. Dopo di che, hanno chiesto aiuto. Coopfond, il fondo mutualistico di Legacoop, è intervenuto con un finanziamento di 80mila euro e Banca Etica ha messo a disposizione una linea di fido di 150mila euro per garantire liquidità. Oggi la fabbrica continua a produrre capi per grandi firme della moda italiana e internazionale, ma ha comunque dovuto fare i conti con le commesse diminuite durante questa pandemia. «Un conto – ci ha detto ancora Claudia Tosi – è vedere che la tua azienda non va perché non si è in grado di fare il proprio lavoro, un conto è che ti piova in testa una pandemia a bloccarti tutto». Ancora una volta queste donne si sono reinventate convertendo parte delle loro macchine alla produzione di mascherine. In azienda ora sono 35, di cui 24 socie.
Noi le abbiamo raggiunte proprio che le sono intorno iniziano, una dopo l’altra, a chiudere. È nel 2014 che viene a sapere di un posto in fabbrica. È la volta buona di tornare a fare il suo mestiere: di tornare a fare la sarta nella cooperativa dalla quale – lei ancora non lo sa – sarebbe nato il Centro Moda Polesano. La produzione, infatti, nel 2016 si arresta, e lei e le sue colleghe si trovano a un bivio: mollare tutto o ripartire. «Mi sono detta: l’ho fatto una volta, l’ho fatto due, lo rifaccio un’altra », ci racconta.
Ma ci dice anche delle notti intere passate a capire se ci fossero le condizioni per riavviare la produzione con quell’andirivieni di idee, proposte e preoccupazioni che si trasformano in opportunità solo quando Legacoop Veneto arriva in loro sostegno. «Avevamo passato mesi piuttosto duri – aggiunge – e perso degli stipendi. Allora ci siamo dette: proviamo a partire e paghiamo subito gli stipendi. Tant’è che il primo stipendio lo abbiamo pagato con le prime fatture che abbiamo fatto. E la Naspi è arrivata prima del previsto».
Ma per capire se l’impresa avesse gambe, non hanno chiesto solo aiuto all’esterno. Hanno fatto leva sulle competenze di chi avevano in casa: giovane o meno. È qui che entra in gioco Lisa Magri, 37 anni, una tra le più giovani fra di loro. Ha una bimba di pochi anni e una laurea in economia alle spalle. «Sono rientrata dalla maternità – ci dice presentandosi – e, dopo una quindicina di giorni, ci hanno comunicato che la fabbrica avrebbe chiuso». Un colpo non da poco per chi ha investito nella scommessa più grande, quella della maternità. La disoccupazione non sarebbe durata a lungo e trovare un nuovo lavoro, per una neomamma, non sarebbe stato un gioco da ragazze. Così, ha deciso di puntare tutto sulla loro impresa, pur confessando di “non aver mai avuto così tanta paura”. Ma i numeri parlano chiaro e sarebbe stato un errore gettare tutto all’aria. «Io lavoro in amministrazione e in più faccio bilancio e budget – aggiunge Lisa -. Quando ho visto i numeri, ho capito che c’erano gli estremi per ripartire. La vecchia azienda aveva perso commesse e fatto investimenti sbagliati, ma noi potevamo contare su uno zoccolo duro di clienti che non ci avrebbe abbandonate ». E così è stato perché, alla notizia che la fabbrica non avrebbe chiuso, sono stati intanti a rinnovare gli ordini. Chi sembrava avere meno dubbi, sin da subito, sull’opportunità della loro impresa sembra essere Marzia Boaretto, 58 anni, sposata e con una figlia già trentenne. «Non ho mai pensato: “alla mia età chi mi prenderà più”. Anzi, amo il mio lavoro, mi emoziona ancora vedere pezzi di stoffa che si trasformano in capo e, con quarant’anni di esperienza sul campo, mi sono detta perché mollare?». Infatti, ha continuato a confezionare capi partendo da pezzi di stoffa che assembla. Un lavoro che ha sempre amato e che ha imparato guardando una zia che faceva la sarta. Tant’è che a diciannove anni, dopo aver studiato da segretaria d’azienda, si è buttata anima e corpo in un laboratorio, facendo della sartoria la propria professione.
«Lavoro in questa fabbrica dal 1994 – racconta Marzia – e, quando ha rischiato di chiudere, è stato davvero un colpo». La famiglia intera, però, l’ha sostenuta nell’andare avanti e il marito era dalla sua parte. «Ero frastornata – dice – e l’idea di ricominciare da capo in un altro ambiente, con altre persone, mi spaventava parecchio ». A fare da collante nella seconda vita di questo stabilimento è stato infatti anche l’affiatamento tra queste donne lavoratrici che – tutte – ci hanno detto quanto per loro sarebbe stata dura rinunciare al rapporto che avevano le une con le altre. Perciò, ci sono voluti giorni e interminabili notti, ma il Centro Moda Polesano alla fine è decollato, testimonianza tutta in rosa di un percorso parecchio noto all’estero di workers buyout (Wbo) che consiste appunto in un’operazione di acquisto di una società portata avanti dai dipendenti dell’impresa stessa. In Italia, il primo caso di impresa rigenerata risale a quarant’anni fa, con l’acquisizione da parte dei lavoratori del quotidiano Il Telegrafo (oggi Il Tirreno).
Una sfida complessa, che va gestita con passo ponderato e con le giuste premesse ma che, in tempi di grosse difficoltà nel mondo del lavoro, ha tutta l’aria di essere un varco verso il futuro. Un’opportunità da tenere d’occhio.
(Foto: Stephanie Gengotti)
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