«I termini che usiamo creano la realtà, fanno e disfano le cose, sono spesso atti di cui bisogna prevedere e fronteggiare le conseguenze in molti ambiti privati e pubblici»
La ricerca criminologica ci dice che gli individui più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi e inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi. Non sanno nominare – dunque comprendere e controllare – le proprie emozioni, una riflessione che si aggiunge a margine dei femminicidi commessi da uomini e ragazzi (apparentemente) normali fino al momento dell’evento tragico.
Questo vale a tutti i livelli della gerarchia sociale, ma soprattutto ai gradi più bassi. Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando le parole fanno paura, e più di tutte proprio le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza; quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi.
La violenza incontrollata è uno degli esiti possibili, se non probabili, di questa carenza. I ragazzi sprovvisti delle parole per dire i loro sentimenti di tristezza, di rabbia, di frustrazione hanno un solo modo per liberarli e liberarsi di sofferenze a volte insopportabili: la violenza fisica. Chi non ha i nomi per la sofferenza la esprime volgendola in violenza, con esiti spesso drammatici. Nelle scienze cognitive questo fenomeno – la mancanza di parole, e dunque di idee e modelli di interpretazione della realtà, esteriore e interiore – è chiamato ipocognizione. Si tratta di un concetto elaborato a seguito degli studi condotti negli anni Cinquanta dall’antropologo Bob Levy. Nel tentativo di individuare la ragione dell’altissimo numero di suicidi registrati a Tahiti, Levy scoprì che i tahitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non quello psichico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale, e pertanto quando lo provavano non erano in grado di identificarlo. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense e (per loro) incomprensibili, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio.
Questo impressionante aneddoto scientifico fa comprendere, molto più di un lungo discorso, quale sia l’importanza pratica – quasi materiale – delle parole. Queste infatti – le parole che usiamo, che sentiamo, che leggiamo – hanno un effetto sostanziale e profondo sulla nostra percezione prima ancora che sulla nostra rappresentazione della realtà.
Immaginiamo di avere fatto un’esperienza spiacevole – un litigio, un incidente stradale, un insuccesso professionale – e pensiamo ai vari modi in cui potremmo descrivere lo stato d’animo che ne è derivato. Se dicessimo di essere pazzi di rabbia, sentiremmo tensione al collo e alle mascelle, stringeremmo i pugni, saremmo pronti a gesti scomposti. Se dicessimo di essere arrabbiati, avvertiremmo tensione emotiva ma saremmo in grado di dominarci e di evitare azioni di cui potremmo in seguito pentirci. Se dicessimo semplicemente di essere seccati, saremmo pronti a reagire in modo razionale all’infortunio, scegliendo le soluzioni più adeguate. Soprattutto saremmo pronti a uscire presto dall’esperienza negativa per tornare a una situazione di benessere emotivo.
Le parole che utilizziamo possono avere un impatto straordinario non solo sulle nostre vite individuali, ma anche su quelle collettive. «Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza». Sono parole del filosofo John Searle, teorico del rapporto fra linguaggio e realtà istituzionali. Le società vengono costruite e si reggono, per Searle, sul fatto che formulare un’affermazione comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo la fiducia in un linguaggio condiviso. Le società (come la nostra, purtroppo) nelle quali nel discorso pubblico prevalgono le asserzioni vuote di significato sono in cattiva salute: in esse, alla perdita di senso dei discorsi, consegue il crollo nella fiducia delle istituzioni.
Le parole creano la realtà, fanno – e disfano – le cose; sono spesso atti di cui bisogna prevedere e fronteggiare le conseguenze, in molti ambiti privati e pubblici. Per questo l’uso della lingua è uno dei terreni di battaglia principali nella lotta per i diritti delle donne. Non è un impegno futile, uno spreco di energie. Le parole che usiamo non riflettono solo lo status quo, costituiscono l’impalcatura del pensare collettivo.
Gli apprezzamenti urlati per strada, le battute e i termini sessisti, il linguaggio che racconta il corteggiamento come un gioco di conquista tutto al maschile, fenomeni che le attiviste spesso denunciano, non sono un problema individuale, né semplicemente i sintomi di una cultura antiquata e pericolosa. Sono i mattoni che la tengono in piedi. Come ha spiegato Iris Marion Young, una delle più importanti filosofe politiche degli ultimi cinquant’anni, le diseguaglianze sono sempre anche il risultato di milioni di interazioni quotidiane, da nulla, e di una cultura che legittima e rende invisibile l’ingiustizia. Per porre fine alla violenza contro le donne occorre passare anche dalle parole.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
© Riproduzione riservata