Nella scorsa stagione di “Zoom – I Webinar di Spazio50” il suo ciclo di incontri sulla cinematografia Oltre lo schermo è stato uno dei più seguiti. In questa Settimana della Creatività, Flavio De Bernardinis, docente di storia del cinema presso il Centro Sperimentale di cinematografia di Roma, autore di diversi libri sul medesimo tema, conduce un laboratorio incentrato proprio sulla magia della “settima arte”. Smonta, rimonta e analizza, insieme ai soci 50&Più che frequentano il suo laboratorio, i meccanismi che si nascondono dietro ad una pellicola. Con lui abbiamo parlato di cinema, rapporti tra generazioni e – naturalmente – creatività.
Da “Oltre lo schermo”, il fortunato ciclo di webinar di Spazio 50 della scorsa stagione, alla Settimana della Creatività, qui sul Lago Maggiore: che effetto fa tornare in presenza dopo mesi di collegamenti virtuali e magari incontrare le persone che hanno seguito i suoi webinar?
C’è una notevole differenza. Il webinar è sicuramente una formula molto positiva, a patto però che sia completata con degli incontri in presenza. La prima differenza innanzitutto è il feedback: nel webinar questo avviene solo tramite chat e pertanto si selezionano in maniera forte le domande e anche le risposte. Le persone che ho incontrato alla Settimana della Creatività sono “anche” quelle del webinar, motivo per cui abbiamo potuto perfezionare la nostra interazione e quindi il discorso culturale e didattico si è arricchito del contatto diretto. Sono però due modalità che si completano: l’una non è in assoluto migliore o peggiore dell’altra. Perché il webinar promuove una simultaneità d’incontro fra persone, luoghi diversi, che la presenza non potrà mai garantire. Il webinar rende globale la platea, il che non è poco. L’incontro in presenza invece può presentarsi come una selezione dei partecipanti al webinar che vogliono approfondire il tutto.
A proposito di feedback di cui parlava poco fa, durante la sua carriera professionale ha avuto sicuramente modo di rapportarsi con generazioni più giovani. In questi giorni, invece, qui alla Settimana della Creatività sta tenendo un corso sul cinema e sul linguaggio filmico ad un pubblico più maturo. Ci sono differenze, somiglianze, analogie tra le due forme di pubblico? Ci sono domande che possono essere declinate a seconda dell’età?
In genere il pubblico più giovane vuole dimostrare la propria competenza attraverso una serie di domande che vogliono approfondire il discorso, volte – come è giusto che sia – anche a mettere in difficoltà il docente. Il pubblico over 50, al contrario, vuole manifestare il suo interesse più che dimostrarlo, rappresentando così un’occasione più felice per il docente. Specie con il cinema, poi, i partecipanti agli incontri tornano un po’ bambini. Perché il cinema, alla fine, è un po’ un giocattolo con cui abbiamo a che fare sin da quella età. Le domande che mi rivolgono gli over 50 sono domande di scoperta, se non di riscoperta. I giovani tendono invece ad indagare ed esplorare. C’è quindi una complementarietà: i giovani vogliono fare gli adulti e gli adulti tornano in qualche modo giovani.
Tornando per un momento alla definizione che ha dato poco fa del cinema come “giocattolo”, secondo lei l’avvento del digitale nel cinema ha portato grandi cambiamenti? A suo parere, questi cambiamenti hanno influito in maniera positiva abbattendo ogni limite alla creatività o, al contrario, hanno portato delle limitazioni nella produzione cinematografica?
La risposta in realtà è molto semplice: quando si abbattono i limiti della creatività il problema da un lato si risolve e da un lato si ripresenta nella sua forma più imponente. Se non ci sono più limiti, infatti, com’è possibile stabilire le coordinate della creatività che a questo punto è talmente libera da rischiare di disintegrarsi nel vuoto? Sicuramente il digitale ha avuto il merito di rendere innanzitutto il cinema alla portata di tutti perché con pochi euro si può fare un cortometraggio grazie ai supporti digitali che sono agili, veloci ed economici. Da un lato però il cineasta digitale si trova difronte una tale gamma di possibilità espressive a basso prezzo e a bassa difficoltà che rischia di rimanere disorientato.
Le persone che in questa Settimana della Creatività stanno frequentando il suo laboratorio lo fanno anche per capire come interpretare il cinema. Quanto cambia il modo di fruire il cinema e di apprezzare l’opera cinematografica dopo aver capito come viene realizzata?
In questo caso posso rispondere per me. Nei miei interventi, sia in webinar che in presenza, cerco di scegliere esempi tratti da film che non siano semplicemente l’esibizione di un virtuosismo cinematografico ma che abbiano anche un contenuto forte dal punto di vista storico e culturale. Di recente, ad esempio, abbiamo presentato un film sulle vicende della psicanalisi di Freud e di Jung: bisogna sempre cercare di far passare l’alfabetizzazione cinematografica, ma credo che per un pubblico di appassionati sia necessario anche cercare di proporre degli esempi in cui si fanno delle scoperte in senso più generale. In questo caso, ad esempio, in che modo è possibile che la psicanalisi di Freud possa essere espressa cinematograficamente. Si fa dunque una lezione di linguaggio filmico, ma anche sulla psicanalisi. Perché – come diceva Truffaut – il cinema va fatto in questo modo: il regista deve lavorare per metà sperimentando sul linguaggio cinematografico, ma per l’altra metà raccontando le cose del mondo.
Durante la serata di presentazione dei laboratori ha detto: «Quando siamo fatti funzionare dalle immagini, crediamo di divertirci, nel momento in cui siamo noi a far funzionare le immagini ci divertiamo ancora di più». Come possiamo educare la nostra “visione” sino a sviluppare questo tipo di occhio critico?
Semplice, con la “morale” del giocattolo di cui abbiamo parlato prima. I giocattoli siamo noi a romperli, a ripararli, a guardare dentro come sono fatti. Usare il termine “giocattolo” riferendolo in questo caso al cinema non vuole essere una diminutio. Se riusciamo invece a definire il cinema attraverso quest’ottica torniamo alle sue stesse origini, ad Auguste e Louis Lumière e Georges Méliès, al divertimento, alla sperimentazione. Dato che invece le arti sono diventate paradossalmente e terribilmente serie e tutto il discorso sulla bellezza andrebbe assolutamente rivisitato – la bellezza non si può imporre né insegnare da zero -, con la morale del giocattolo facciamo sì che la bellezza sia proprio lo smontare, il ricomporre e il rompere il cinema/giocattolo stesso.
Allora il cinema è anche rompere il giocattolo?
Sì, dopo tutto, il cinema è anche questo: rompere il giocattolo. Perché ogni volta che vediamo un grande film, nel momento in cui terminiamo la visione, finiamo col romperne l’unità dato che le immagini ci arrivano a frammenti, a segmenti, a sequenze. Tendiamo a ricordarne alcune ma non altre. Alcune le conserviamo, altre le cestiniamo, alcune le rimontiamo, le ripensiamo, altre le rompiamo. Questo fa parte effettivamente del linguaggio del cinema: magari a 20 anni vediamo un film e lo rompiamo e lo rimontiamo in un determinato modo nella nostra mente (che è la vera sala cinematografica), a 40 vedremo altri pezzi e altri collegamenti rompendoli e rimontandoli in un modo diverso. È proprio il cinema ad essere fatto così, è la prima vera grande virtuale, non esiste un “oggetto fisico film”, esiste solo un’energia da cui non dobbiamo sapere trarre il massimo profitto.
Anche questo montare e smontare alla fine è una forma di creatività…
Forse è la massima forma di creatività interiore ma anche di condivisione con gli altri. Nelle iniziative che fa Spazio50 poi sono gli utenti stessi che, dialogando fra loro, insieme smontano e rimontano il giocattolo/cinema. Non è solo merito dell’insegnante.
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