Oggi, più che mai, c’è bisogno di modelli e linguaggi nuovi per promuovere la parità fra uomini e donne. A partire dagli esempi “al femminile” che si trovano sulla Treccani
Se si propone a chi si diletta con l’enigmistica questa formula: “Parigi – Francia + Italia”, troverà facilmente la risposta, che è “Roma”, così come per “re – uomo + donna”, la soluzione è “regina”. E i medesimi risultati sono stati prodotti da un programma informatico. Tuttavia, lo stesso programma, se si digitava “medico – uomo + donna” talvolta produceva come risultato “infermiera”; e “negoziante – uomo + donna = casalinga”! Questo esempio, riportato da Giuneco – una software house ideatrice del Dorothy Program, un incubatore di progetti che combatte il divario di genere nel settore delle tecnologie, ci deve far riflettere. Gli algoritmi perpetuano stereotipi e pregiudizi perché, quando non supervisionati adeguatamente, imparano dai modelli esistenti. Se in rete si trovano perlopiù immagini di negozianti barbuti che offrono sorridenti la propria frutta a dimesse casalinghe, perché mai un software dovrebbe ragionare diversamente? In sostanza, non è molto diverso da quello che succede alle persone. Immagini, linguaggi e comportamenti stereotipati, superati e sbilanciati perpetuano la disparità di genere: ossia la mancanza di parità, la differenza nel trattamento o nella percezione di appartenenza in funzione di un genere sessuale rispetto ad un altro. Era il 1973 quando è stato pubblicato Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti, la pedagogista recentemente scomparsa. Il libro nasce dall’osservazione diretta del bambino dalla nascita in poi e analizza il comportamento degli adulti nei suoi riguardi, a cominciare dalle aspettative legate all’appartenenza ad un sesso piuttosto che un altro. Riporta Gianini Belotti: «In Lucania, quando nasce un maschio si versa una brocca d’acqua per la strada, a simboleggiare che il bambino che è nato è destinato a percorrere le strade del mondo; quando nasce una femmina l’acqua viene versata nel focolare, a significare che la sua vita si svolgerà al chiuso delle pareti domestiche». I casi e i dati citati da Gianini Belotti sono innumerevoli, e dimostrano che se nessuno ha il potere di modificare eventuali cause biologiche innate, le cause sociali e culturali della differenza fra i sessi possono essere cambiate. A cominciare dai primissimi momenti di vita di una persona. Dalla disponibilità all’allattamento al seno (in un campione di bambini di ambo i sessi il 34% delle madri rifiutava di nutrire al seno le figlie femmine mentre tutte le madri di figli maschi, tranne una, avevano voluto allattarli al seno) allo svezzamento precoce per le bambine rispetto ai maschi, ad una diversa indulgenza sul succhiamento del pollice, tenacemente ostacolata nelle bambine per il timore degli effetti estetici. E così via, passando dalle differenze di accettazione di caratteri e comportamenti più volitivi e vivaci alle pretese di sacrifici e sottomissioni, dall’esaltazione dell’aspetto estetico piuttosto che alle caratteristiche legate a forza ed intelligenza, tanto da non stupirsi che – secondo un altro studio citato nel libro “a tre anni e mezzo neppure uno dei cento bambini interrogati preferiva essere femmina, mentre 15 bambine su 100 preferivano essere maschi”. «A cinque anni – conclude Gianini Belotti – tutto è compiuto, l’adeguamento agli stereotipi maschili e femminili è già ottenuto». La condizione della donna, nonostante fosse percepita come minimo iniqua, è stata sempre considerata, perlomeno fino al secolo scorso, immutabile. Tanto che per poter immaginare e ventilare una situazione diversa, alcune femministe ante litteram sono ricorse al genere della fantascienza, filone sul quale si sono mosse diverse scrittrici, a tutte le latitudini. Fra queste, Begum Rokeya, madre del femminismo bengalese ed in particolare di quello di religione musulmana che nel 1905 pubblicò un libro con il titolo Il sogno della pace, nel quale la protagonista immagina di essere trasportata, in sogno, nel ruolo di sultana, in un mondo che è del tutto capovolto e la segregazione imposta alle donne, sia invece imposta agli uomini. Ne Il sogno della pace, l’imperatrice non soltanto ordina che tutte le bambine ricevano un’istruzione adeguata, ma fonda il suo regno sulle sorprendenti scoperte delle sue scienziate. Una antesignana della promozione fra le ragazze di quelle che oggi si chiamano materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica), considerate da sempre appannaggio degli uomini, sulla base di un preconcetto che vuole le donne meno portate per l’applicazione a studi tecnici e scientifici. Preconcetto smentito dai dati sul rendimento scolastico: le studentesse che intraprendono studi universitari in questo campo, si laureano prima e meglio dei loro colleghi. Ma, secondo i dati del World Economic Forum, meno del 30% delle studentesse intraprende un percorso universitario o post-universitario in questo campo. Per superare questo gap, l’ONU ha istituito la Giornata Internazionale per le Donne e le Ragazze nella Scienza (11 febbraio) e moltissime sono le iniziative pubbliche e private che si muovono in questa direzione. Far conoscere scienziate che hanno fatto la storia, insieme a quelle che invece sono rimaste nell’ombra, è l’obiettivo del volume Scienziate nel tempo che raccoglie oltre 100 biografie. Da Margherita Hack alle suore astronome Emilia Ponzoni, Regina Colombo, Concetta Finardi e Luigia Panzeri – il loro nome è rimasto sconosciuto fino al 2016 – che nel 1800 catalogarono oltre 400mila stelle. A dimostrazione del perdurare di stereotipi sessisti, è emblematica la vicenda di Samantha Cristoforetti prima donna europea comandante della Stazione Spaziale Internazionale. Nei titoli dei giornali è sempre e solo stata AstroSamantha (“il presidente Mattarella e AstroSamantha in diretta con l’astronauta Parmitano dallo Spazio”), e della sua biografia più che gli studi, i titoli, professione e carriera, veniva evidenziato il fatto che fosse donna e addirittura madre (“l’Astromamma”). La consuetudine di non indicare nei titoli il cognome delle donne, relegandolo se tutto va bene nei sottotitoli o perso nel corpo dell’articolo, quando queste assurgono alla notorietà per aver acquisito ruoli apicali o di successo in ambiti solitamente considerati maschili (“una mamma alla guida dei carabinieri”, “la premier League sceglie una donna come Presidente”) è purtroppo diffusa addirittura quando si tratta di femminicidi (“il calvario di Chiara, uccisa dal vicino”). La necessità di utilizzare correttamente il linguaggio, perché è una rappresentazione della realtà che a sua volta la condiziona, è diventato un tema tanto attuale quanto controverso: dalla declinazione dell’articolo davanti alle cariche pubbliche (il/la Presidente) all’introduzione della “schwa”, un simbolo fonetico internazionale rappresentato con una e rovesciata (ə) che identifica una vocale intermedia da utilizzare, quando si vuole dare una desinenza neutra al posto del più comune maschile plurale, anche in sostituzione dell’asterisco. Una vera rivoluzione, in questo campo, è quella introdotta da Treccani, che ha pubblicato il primo vocabolario che non presenta le voci privilegiando il genere maschile, registrando invece il femminile di nomi e aggettivi prima del maschile, in virtù dell’ordine alfabetico: dunque “bella” viene prima di “bello”, “amica” precede “amico” ma “attore” si trova prima di “attrice”. E negli esempi, finalmente, non ci saranno più gli stereotipi di genere, per i quali a cucinare o a stirare è immancabilmente la donna, mentre a dirigere un ufficio o a leggere un quotidiano è puntualmente l’uomo.
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