Vi ricordate di Romeo, il robot “umanoide” in grado di riconoscere i volti delle persone grazie a due telecamere montate sulle sopracciglia? Può aprire le porte, raccogliere oggetti, spostarsi autonomamente. E di Pepper? Progettato per interagire con le persone, è in grado di comprendere le emozioni umane come la tristezza o l’allegria, analizzando il tono della voce o la postura del corpo.
In una società sempre più longeva, dove vengono meno i tradizionali modelli di assistenza familiare e le situazioni di forte fragilità sono sempre più diffuse, i robot sono destinati a ricoprire un ruolo crescente, particolarmente nell’assistenza agli anziani.
Secondo le parole di Sherry Turkle, sociologa statunitense ed esperta di tecnologie, la nostra epoca può essere definita come un “momento robotico” non tanto perché i robot da compagnia sono ampiamente diffusi nella nostra realtà, ma in riferimento allo stato di difficoltà emotiva che spinge molte persone a considerarli addirittura come amici, confidenti e perfino partner affettivi.
I robot sociali come Pepper e Romeo non provano le emozioni degli esseri umani e non conoscono il concetto di interazione sociale, ma alcuni filosofi contemporanei stanno già parlando di “empatia artificiale” per indicare la capacità delle macchine di modificare il proprio comportamento in funzione delle espressioni emozionali, facciali o posturali dei loro vicini umani.
Anche alla luce di questo, è comunque accettabile che persone fragili e vulnerabili si affezionino a robot che, seppur altamente evoluti, sostanzialmente fingono di avere emozioni, ma non ne hanno? Fino a che punto è lecito e possibile alleviare la solitudine attraverso la compagnia di una macchina?
È innegabile il grande potenziale terapeutico che un robot svolge in quei casi in cui diventa oggetto di una relazione che, per quanto riferita ad un automa e non ad un essere vivente, è comunque in grado di offrire alle persone ciò di cui tutti hanno bisogno: la rappresentazione di un legame affettivo.
Secondo alcuni, sarebbe meglio avere un robot sociale come badante o assistente, piuttosto che non aver alcuna assistenza o ricevere cure da parte di un personale in alcuni casi distratto o svogliato. Sicuramente un robot non è in grado di capire se un anziano è preoccupato o triste o se si sente solo, ma quanti addetti ai lavori sono veramente in grado di farlo?
Di certo non si può limitare la scelta a due soluzioni estreme: i robot da compagnia o la solitudine. Piuttosto, si può immaginare un futuro in cui robot aiutanti possano svolgere i lavori più umili e ripetitivi: macchine capaci di girare nel loro letto pazienti indeboliti o di aiutarli ad alzarsi.
In questo modo il robot non sarebbe un sostituto della compagnia umana, ma solo un aiuto, in modo da lasciare alle persone più tempo per occuparsi degli aspetti personali ed affettivi della cura.
In definitiva, i robot certamente possono migliorare l’autonomia delle persone – negli ospedali, nelle case di cura o nelle abitazioni – ma rimane difficile accettare l’idea di macchine trasformate in personale di assistenza, dal momento che questa è basata soprattutto su relazioni a livello personale ed emozionale, quando non addirittura, affettivo.
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