L’ictus cerebrale rappresenta, in Italia, la terza causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie. Quasi 150mila italiani ne vengono colpiti ogni anno e la metà dei superstiti rimane a convivere con problemi di disabilità anche gravi. Oggi si celebra la Giornata Mondiale contro l’ictus cerebrale. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Pennacchi, presidente dell’associazione ALICe Lazio (Associazione per la lotta all’ictus cerebrale).
Lei è Presidente di A.L.I.Ce Lazio, un’associazione laica di pazienti e parenti di pazienti. Ci può dire di cosa si occupa?
A.L.I.Ce Lazio nacque circa vent’anni fa per iniziativa di accademici che si occupavano di ictus. Fino a due anni è stata un’associazione fortemente a guida professionale. Ultimamente sono stati fatti dei cambiamenti e la dirigenza di tutte le filiali regionali e di quella nazionale non hanno più medici all’interno. Siamo tutti “laici”. Realizziamo campagne formative e di screening che, però, sono rallentate molto durante i mesi dell’isolamento. Adesso stiamo ricominciando ad organizzare eventi più allargati (naturalmente con green pass e mascherina), per riportare gli associati alla dimensione più autentica dell’associazionismo, ovvero il “fare le cose insieme”.
Il 29 ottobre è la Giornata Mondiale contro l’ictus celebrale. Perché è importante una ricorrenza simile?
Questa giornata è stata istituita da World Stroke Organization che è una confederazione di società scientifiche e associazioni di supporto ai pazienti. Quest’anno il messaggio è “Minutes can save lives” ovvero i minuti possono salvare vite umane.
Quindi è necessario essere tempestivi…
Sì, se c’è il sospetto di un ictus, bisogna immediatamente contattare il 112 o il 118 spiegando ciò che si sente. A questo punto arriverà un team di persone che ha ricevuto una formazione apposita e che raccoglierà una serie di informazioni per l’ospedale di destinazione. Ciò permette al paziente di non dover aspettare. C’è da aggiungere che alcune forme di ictus sono trattabili se presi in tempo: esistono dei farmaci o degli interventi microchirurgici che possono risolvere il problema. L’ideale sarebbe intervenire tra un’ora e mezza e 4 ore e mezza dall’insorgenza di un ictus. Ma bisogna fare in fretta.
A tal proposito avete organizzato “Ictus, i minuti contano”: ci spiega di cosa si tratta?
È un evento che abbiamo organizzato ieri pomeriggio, alle 18, presso il centro Giovani del I Municipio di Roma, in via della Penitenza 53 (via della Lungara). Abbiamo cercato, in modo semplice, di avvicinare i giovani ai temi dell’ictus. Non è un evento strutturato tradizionalmente, non ci sono state persone sul podio o slide da vedere, ma è stato un salotto informale. Sono stati coinvolti ragazzi (dai 16 anni in su), giovani e meno giovani in un’occasione (rara) di confronto e informazione su temi importanti.
Ma cosa significa essere colpiti da un ictus?
Non lo conosco come esperienza diretta, però sono figlio di un uomo che ha avuto ictus in giovane età, a 63 anni. Per una persona attiva, che lavora, significa improvvisamente dipendere in tutto e per tutto dagli altri. Si perde quindi anche la capacità di comunicare. Il 50% degli ictus, infatti, si associa ad afasia, ovvero l’incapacità di parlare o di parlare bene. E non ci si muove più bene. Una tipica conseguenza è la paresi degli arti di un lato del corpo, più grave di solito alle braccia, un po’ meno alle gambe. Può capitare di non riuscire più a camminare in autonomia, quindi possono servire sedie a rotelle, deambulatori, bastoni canadesi. Oppure non riuscire più a cucinare per sé stessi o per i propri figli, non potersi prendere cura del proprio corpo… sono tante le perdite di autonomia.
Quali possono essere gli esiti cognitivi di un ictus?
L’incapacità di ricordare cose, di riconoscere persone, la modifica di alcuni tratti caratteriali: irritabilità, tendenza alla depressione oppure assenza totale di freni inibitori. È importante conoscere queste situazioni. Una delle conseguenze più gravi si verifica sui familiari di chi è stato colpito da ictus poiché non sono preparati e non sanno come gestire la situazione.
E quindi a chi rivolgersi? Cosa fare?
Il servizio pubblico, che ad esempio per la fase acuta è eccezionale, sulla parte cognitiva non riesce a fare molto. E qui dipende anche dalle risorse delle famiglie. Ci si può rivolgere a degli psicologi competenti in materia che possono aiutare il paziente a ricostruirsi una personalità il più vicino possibile a quella precedente all’ictus.
Quanto è impattante per i parenti e come si fa ad assistere al meglio il proprio caro?
Per quanto riguarda gli altri aspetti della vita comune – per esempio fare il bagno, vestirsi, muoversi dentro casa e così via – esistono diversi aiuti per le famiglie nella forma di opuscoli oppure di libricini che contengono consigli utili per aiutare un nostro caro ad alzarsi dalla poltrona o accompagnarlo quando cammina per evitare che urti oggetti. La nostra associazione organizza dei seminari per i familiari, individuali o di gruppo, nei quali si racconta come gestire determinati tipi di problematiche.
Quanto è importante il tema della prevenzione?
Importantissimo. Perché ovviamente tante più persone sono al corrente su cosa fare, tanto meglio. Da alcuni anni si è affermato un principio importante che riconosce i più giovani come il veicolo più efficace per informare le famiglie. Gli adolescenti, infatti, possono fare leva sull’affettività per stimolare e interessare i genitori e i nonni a prendersi cura di sé stessi. Ma è importante informare anche le persone che sono nella fascia di età tra i 30 e i 50 anni. Perché, se da una parte è vero che solo il 5% dell’ictus finisce per colpirli, si tratta delle persone che hanno tutta una vita produttiva davanti e sarebbero condannati a passare decine di anni limitati fisicamente per via di qualcosa che forse avrebbe potuto essere affrontato sapendone un po’ di più.
Un’ultima domanda: il Covid-19 ha rallentato la cura e l’assistenza a persone colpite da ictus cerebrale?
In questo ultimo anno siamo venuti a conoscenza di tante persone che non sono andate immediatamente in ospedale per la paura di prendere il Covid. Probabilmente un rischio in questo senso c’era, ma era decisamente un rischio inferiore.
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