Sono stati nell’occhio del ciclone lungo tutta la pandemia, confinati come pochi in spazi circoscritti, a tutela dei loro assistiti. Sono le operatrici e gli operatori delle strutture residenziali per anziani.
La denuncia di Amnesty International
Come emerge da una nuova ricerca di Amnesty International, sono stati proprio loro a trovare il coraggio di denunciare le precarie e insicure condizioni di lavoro dallo scoppio dei contagi da Covid-19. Nel report dell’organizzazione internazionale, infatti, si parla chiaramente di procedimenti disciplinari iniqui e di ritorsioni da parte dei datori di lavoro nei loro confronti. Titolari di strutture che “invece di affrontare le criticità sollevate – come quelle sull’uso dei dispositivi di protezione individuale e sul numero dei contagi nelle strutture residenziali -, hanno imposto il silenzio, effettuato licenziamenti ingiusti e adottato misure antisindacali”.
Operatori messi a tacere
Lo sottolinea anche Marco Perolini, ricercatore di Amnesty International sull’Europa occidentale. “Operatrici e operatori sanitari e sociosanitari delle strutture residenziali sono stati in prima linea nella lotta contro la pandemia da Covid-19 e sono stati elogiati dal governo italiano per il duro lavoro svolto in condizioni terribili. Tuttavia, queste stesse persone sono state ridotte al silenzio dai loro datori di lavoro quando hanno cercato di esprimere preoccupazione sul trattamento degli ospiti anziani e sulla propria sicurezza”.
A fare le spese di condotte vessatorie, soprattutto il personale femminile. Lo stesso che rappresenta poi la maggioranza del personale impiegato in queste strutture (circa l’85% del totale) in cui il Covid ha lasciato un’impronta indelebile. Secondo dati ufficiali, il 65% dei lavoratori che hanno contratto il Covid-19 in Italia, nonché quasi un quarto dei deceduti, erano all’interno di tali strutture.
Le testimonianze
E sono tante le testimonianze pronte a ribadire lo stesso concetto. Marco, nome fittizio a protezione di uno dei lavoratori ascoltati, dice: “Le cooperative e le strutture residenziali pubbliche hanno messo la museruola alle persone che hanno denunciato o parlato con la stampa”. Per Hamala, altro operatore sociosanitario che lavorava con contratto in outsourcing in una delle principali strutture residenziali della città di Milano, stessa storia ma epilogo già chiaro. Licenziato ingiustamente dalla cooperativa per la quale lavorava. A dirlo, stavolta, non è Amnesty ma il Tribunale del capoluogo lombardo. Nel maggio di questo anno, infatti, ne ha ordinato il reintegro sul posto di lavoro e il versamento di un’indennità sottolineando quanto informare le autorità giudiziarie delle irregolarità è questione di interesse pubblico, perché avrebbe potuto evitare la morte delle persone anziane residenti nelle strutture.
Il whistleblowing non basta
Eppure sono ancora in tanti ad aver paura di parlare. La legge sul “whistleblowing”, entrata in vigore in Italia nel 2017, dovrebbe proteggere chi ha denunciato irregolarità sul posto di lavoro. Ma non è riuscita finora a garantisce agli stessi la protezione della quale invece avrebbero estremo bisogno.
Istituire una Commissione d’inchiesta
È per tale ragione che Amnesty International ha chiesto che “le autorità italiane assicurino che le voci di queste categorie siano ascoltate. Chiediamo pertanto – si legge nel loro comunicato – che il parlamento istituisca una commissione indipendente d’inchiesta che si concentri in particolare sulla situazione delle strutture residenziali. Attualmente risultano al vaglio parlamentare diverse proposte di inchiesta per indagare differenti aspetti dell’emergenza sanitaria. Tra questi la congruità delle misure di gestione dell’epidemia, le modalità con cui la stessa si è diffusa e l’efficacia del sistema delle strutture residenziali. Tuttavia, ad oggi, nessuna commissione è stata ancora istituita”.
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