Trenta racconti di vincitori del festival, dai più giovani agli ultraottantenni, per una carrellata di aneddoti, di emozioni e ricordi. Abbiamo intervistato i due autori del libro.
C’è chi la tiene nello studio dove scrive le nuove canzoni (Diodato), chi non sa proprio che fine abbia fatto (Annalisa Minetti), chi l’ha, forse, in qualche scatolone in soffitta (Aleandro Baldi), chi se l’è fatta scippare da Umberto Tozzi con una supercazzola (Enrico Ruggeri), chi non l’ha mai vista perché se la tenne il discografico (Fausto Leali e Homo Sapiens), chi l’ha regalata (Marco Masini) e chi addirittura la tiene in una cassetta di sicurezza (Gilda). Gli altri la tengono in casa, gelosamente e insieme agli ulteriori premi ricevuti: è la statuetta con il leoncino rampante su una palma che premia i vincitori del festival di Sanremo.
Sono trenta quelli intervistati da Marco Rettani, autore di canzoni, discografico e scrittore, e Nico Donvito, giornalista, per il libro testimonianza Ho vinto il festival di Sanremo. E ciascuna chiacchierata ha come corollario il commento di un addetto ai lavori, da Vincenzo Mollica a Mal, da Carlo Conti a Mario Lavezzi, da Dario Salvatori a Teo Teocoli, per offrire un panorama super partes del significato e del periodo in cui si svolse, delle specificità e dell’impatto del festival di cui parla il vincitore. Dai più recenti, Diodato, Ermal Meta, Francesco Gabbani, a quelli remoti come Bobby Solo, Tony Renis e Tony Dallara, la carrellata propone una serie di aneddoti e di sensazioni, di ricordi e di emozioni, che attraversano le diverse generazioni di artisti.
«Una sola domanda si ripete in tutto il libro», ci dice Donvito. «Che fine ha fatto il leoncino? Dove lo avete conservato? È una curiosità che permette di capire un po’ il rapporto che hanno con quel tipo di ricordo e con i premi in generale della vita. Il resto lo abbiamo improvvisato, sono state veramente chiacchierate, non interviste. Anche se avevamo preparato delle domande, delle curiosità, alla fine il racconto partiva sempre da loro».
Avete trovato un fil rouge che unisce il modo di vedere il festival dei diversi vincitori?
Rettani: «Anche se siamo andati dai più giovani, da Diodato, da Ermal, da chi l’ha vinto recentemente, fino a Tony Renis e Tony Dallara, che hanno 85 e 87 anni, quello che lega profondamente tutti è l’amore incondizionato che il ragazzo di oggi o il big che ha vinto nel 1960 o nel 1963 provano per Sanremo. Dallara finisce l’intervista con “evviva Sanremo”, Peppino Di Capri con “viva la musica, viva Sanremo”. Quasi tutti lo dicono, ma non potevamo concludere tutti i capitoli allo stesso modo. E tutti vorrebbero in qualche modo ritornare. È questo il filo conduttore, insieme alla voglia di raccontarlo. Non abbiamo avuto nessuna difficoltà ad avere dei sì».
Perché avete fatto questa scelta di unire i ricordi dei vincitori a un commento degli addetti ai lavori?
Rettani: «Con i soli vincitori c’era il rischio dell’autoincensamento, che peraltro non c’è stato. Quindi gli addetti ai lavori, il gotha degli esperti di Sanremo, da Mollica a Bartoletti, a Castaldo, avrebbero, come dire, rimescolato le carte e riportato tutto in equilibrio. In realtà è stata anche una gioia mettere in questo libro i vincitori e tutti quelli che hanno vissuto con Sanremo nel cuore. Era un modo per includere anche altri direttori artistici, a parte Amadeus che cura l’introduzione, c’è Carlo Conti con Francesco Gabbani, c’è Paolo Bonolis con Marco Carta. Era un modo anche per implicare dei cantanti che non hanno vinto, come Rita Pavone, come Sergio Cammariere. Un modo per completare ogni capitolo».
Avete avuto un’impressione di diversità del rapporto con il festival, e anche con la canzone in generale, tra cantanti delle diverse generazioni?
Donvito: «L’approccio è sempre personale. C’è chi lo ama smisuratamente e chi invece lo vede come un veicolo. Enrico Ruggeri è stato il più, come dire, non asettico, distaccato rispetto al festival. Ha detto: “Sì, ero emozionato là sopra, ma sono più emozionato quando a un mio concerto ho davanti 500 persone che sono venute per me. A Sanremo faccio tre minuti di uno show in cui ho una piccola quota”. La gente non va a vedere il cantante singolo, ma va a vedere il festival e l’emozione che provano è in funzione del temperamento di ciascun artista. Non c’è una diversità generazionale, tra gli over 50, 60 e gli under 35. È più una cosa di carattere, di approccio, che di generazione».
Il festival è una gara di canzoni che ha travalicato il fatto di essere una gara di canzoni per diventare una vetrina delle emozioni del nostro Paese. Secondo voi come ci è riuscito?
Rettani: «C’è riuscito a discapito di tutto. Tutto quello che c’era a fianco di Sanremo è morto. Dal Festivalbar a Canzonissima, dal Disco per l’estate al Cantagiro, che ai tempi avevano più successo, hanno avuto la loro epoca. Il festival ha vissuto alti e bassi, paurosi anche. Ci sono stati momenti che si pensava di abbandonarlo, ma poi alla fine Sanremo è diventato lo specchio della nostra cultura, del nostro Paese e ne ha vissuto via via gli up and down. Credo che Amadeus sia stato capace di riportarlo alle nuove generazioni, quando, anche se la mia generazione non l’avrebbe mai abbandonato fino alla fine, i ragazzi erano veramente out. E invece adesso i giovani lo aspettano esattamente come noi più maturi».
Qual è l’aneddoto che più vi ha colpito?
Rettani: «Quello più divertente riguarda Simone Cristicchi, che sviene all’annuncio della sua vincita. Si può vedere che non si presentò immediatamente sul palco dove tutti lo aspettavano, semplicemente perché era svenuto dietro le quinte».
(Foto apertura: Andrea Raffin/Shutterstock.com)
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