Antonella Guglielmi. Laureata in pedagogia, ex dirigente scolastica e lettrice compulsiva. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Padova.
Interno notte. Una casa, un appartamento. All’interno della casa una stanza, un salotto. E, nella stanza, un divano azzurro. Non c’è molta luce in quella stanza, solo una lampada è accesa e, più che illuminare, riflette delle ombre sul muro.
Sul divano, una donna è sdraiata. Indossa la felpa di una tuta, che si intuisce sformata e scolorita, sopra un pigiama, i piedi sono nudi, riparati da un cuscino di velluto blu.
La donna è girata sul fianco destro, i capelli biondi le coprono il viso, le braccia sono ripiegate contro il corpo.
Tutto in lei è triste. Malinconico.
La curvatura delle spalle, le mani abbandonate, gli occhi chiusi. Ad un osservatore che entrasse nella stanza, potrebbe sembrare una persona addormentata, magari sorpresa dal sonno davanti alla tv e che ha avuto solo la forza di spegnere l’apparecchio, ma non quella di alzarsi per raggiungere il letto.
Ma non è possibile essere così tristi mentre si dorme!
C’è qualcosa, nella donna sul divano, una tristezza densa, che nega il sonno, che nega qualsiasi sollievo.
Accanto al divano, su uno spicchio di tappeto che ha visto momenti migliori, ci sono un bicchiere con un fondo di vino rosso coagulato, una custodia per occhiali, un posacenere, un pacchetto di sigarette e un telecomando.
E del resto, cosa si potrebbe trovare di notte, accanto ad un divano, dove una donna così triste attende che il tempo scivoli via?
Niente altro che impronte di malinconia, e solitudine.
La malinconia e la solitudine, che di giorno si addomesticano. Figli e lavoro, spesa e casa, amiche e sigarette, tutto serve, oltre che a vivere, a non ascoltare il ruggito della belva che ti rosicchia l’anima. Anzi, talvolta è per tenere lontana la belva che ti sembra di essere piena di energia. La paura di galvanizza, quasi. E’ per non sentire quel ruggito che ti riempi di impegni. Che ti fai in quattro per tutti: al lavoro sei l’ultima a lasciare la tua scrivania, e dopo averla meticolosamente riordinata. Se tua figlia vuole mangiare qualcosa di particolare, rinunci all’ultimo libro acquistato e passi ore in cucina; i suoi amici sono sempre accolti con un sorriso, a pranzo o a cena. Poi, non c’è concerto, non c’è film, non c’è ristorantino tipico dove tu non vada, a volte anche da sola.
La donna ha imparato a riconoscere, con gratitudine, i segnali della stanchezza.
Di sera, quando tutto intorno tace, i figli dormono, la cucina è linda, i cani hanno mangiato e le finestre sono chiuse, lei siede davanti alla tele e si ascolta.
E se si sente stanca, davvero stanca, si sente felice. O meglio, prova qualcosa che le riverbera un ricordo di felicità.
Perché sprofondare nel sonno è l’unica cosa che davvero le interessi. L’unica che possa darle conforto. Quando è cominciato tutto questo? Quando questa infelicità del vivere ha preso il sopravvento su ogni cosa?
Non ha memoria di un inizio preciso, di un segnale che sia rimasto impresso. Un cartello luminoso, con una scritta lampeggiante di avvertimento. Un matrimonio finito, una storia d’amore andato a male.
La morte del padre. Dolori, certo, ma che fanno parte della vita, che si dovrebbe essere attrezzati, più o meno, a superare. Eppure, proprio da lì era probabile che tutto fosse cominciato; scomodando il caro, vecchio padre Freud, la donna poteva ipotizzare di non avere strutturato un Io adeguato, e che la sua fragilità, mascherata dietro il paravento di una vita risolta, avesse cominciato a palesarsi in seguito agli ultimi avvenimenti: un matrimonio fallito. Una storia di amore andato a male. La morte del padre.
Si sente vicina alla felicità, allora, quando è così stanca da esser certa che, buttandosi sul letto, il sonno la vincerà, con una rapidità tale da ricordare la conseguenza di una sbronza. Qualche volta le accade si dormire addirittura tutta la notte e, anche se non crede ai doni di Dio, e non crede nemmeno in Dio, quando al mattino apre gli occhi e si rende conto che sono già le cinque, sente salire dentro di sé una muta preghiera di ringraziamento, inviata ad un dio sconosciuto.
Ma questo, purtroppo, accade di rado. Sempre più di rado. E la donna bionda, sul divano azzurro, con la felpa e il pigiama, nel cuore della notte, è diventata una scena sempre più consueta.
La donna adesso si gira, cambia posizione. Il braccio destro, che tiene sotto il corpo, si è intorpidito. Ha un po’ freddo, la temperatura si abbassa parecchio, la notte, in quel salotto. Forse, semplicemente, è inquieta. Forse, semplicemente, vorrebbe non essere sola, una volta tanto. Vorrebbe un uomo accanto, per una volta sincero e gentile, che l’aiutasse a cacciare via quel freddo che comincia a sentire. Oppure, vorrebbe che uno dei suoi figli avesse voglia di abbracciarla per davvero, non uno di quegli sfioramenti svagati e frettolosi, che i ragazzi riservano ai genitori, anche ai più amati.
La donna si sente sola, questa notte, come mai si è sentita prima. Tutto attorno a lei è solitudine: la lampada tenue, le ombre sul muro, i resti del vino nel bicchiere, il ronzio del frigorifero, il rumore di un motore lontano fuori nel buio, il suo stesso respiro.
Il battito fragoroso del cuore.
Poi, qualcosa si muove, sul pavimento un ticchettio di piccole unghie. La sente avvicinarsi, è Lola, la cockerina dei suoi figli, cagnolina dolce e simpatica, ma innamorata solo dei ragazzi. Nonostante sia la donna che si occupa di lei, provvedendo a tutte le sue necessità, pasti innanzi tutto, che per Lola sono la fonte principale e inesauribile di piacere, la cucciola le riserva ben pochi segnali di riconoscenza, e quasi nessuno di affetto.
Lola arriva vicino al divano, si ferma incerta, nella semioscurità.
La donna non apre gli occhi, non tenta neppure di guardarla, né si chiede cosa starà facendo, non le interessa, quella cagnetta l’ha troppo delusa!
All’improvviso, un balzo e Lola è accovacciata accanto a lei, all’altezza della pancia, nell’incavo formato dal corpo piegato. La donna sente il calore di quel piccolo corpo, ne sente il respiro, ne avverte la vicinanza.
Una vicinanza di affetto, che mai avrebbe immaginato. Senza accorgersene, comincia ad accarezzare quel piccolo cane. Il pelo è morbido, liscio, dolce sotto le sue dita. Non ricorda di averla mai accarezzata prima, forse, appena Lola è arrivata a casa, avrà anche provato a farlo ma, vista l’ingratitudine della bestiola, i tentativi devono essere presto terminati. Invece ora Lola mostra di gradire: si è sistemata bene sul divano, aderendo al corpo della donna e posandole il musetto sulla spalla. Guardandola, probabilmente. E la donna continua ad accarezzarla e dal pelo, attraverso le dita che si vanno intenerendo, sente salire verso di lei un calore buono. Un calore che sa di vita. Un calore che può, almeno per un poco, farle compagnia nella notte.