Dopo quasi ottant’anni, aggredendo l’Ucraina, la Russia di Putin ha riportato la guerra in Europa. Questioni etniche e politiche si agitano dietro un attacco temerario, che sfida l’Unione Europea e la Nato e apre una nuova era nelle relazioni internazionali
Lo scorso 24 febbraio, intorno alle 4 del mattino ora italiana, il presidente russo Vladimir Putin ha pronunciato un discorso inimmaginabile per l’Europa del XXI secolo. Adducendo a pretesto la richiesta d’aiuto da parte di due regioni di confine, il Donetsk e il Lugansk, dove da anni la popolazione russofona sarebbe oggetto di “genocidio”, ha avviato “un’operazione militare speciale” contro l’Ucraina. Poche decine di minuti dopo, missili russi hanno colpito la capitale Kiev, Kharkiv (la seconda città del Paese), i porti di Mariupol e Odessa, e varie installazioni militari e logistiche ucraine. Colonne di autocarri e mezzi blindati hanno invaso l’Ucraina dal confine con la Bielorussia e dalla Crimea. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, un ex attore in carica dal 2019, si è ritrovato suo malgrado sul palcoscenico più rischioso della sua carriera: ha denunciato l’aggressione russa, invitato gli ucraini alla calma e promesso una resistenza strenua. Le richieste di marcia indietro al presidente russo sono cadute nel vuoto, così come i tentativi di favorire il negoziato da parte di una comunità internazionale che ha condannato pressoché compatta l’iniziativa di Putin, ha commiato dure sanzioni economiche alla Russia e, però, si è limitata a sostenere con aiuti umanitari e forniture di armi l’Ucraina, senza prevedere interventi militari diretti. La partita è delicatissima: i principali attori internazionali (Stati Uniti, Unione Europea, NATO e, su un altro versante, Cina e Turchia) sono divisi tra il bisogno di assistere le vittime dell’aggressione russa e quello di scongiurare un’espansione del conflitto e una tristemente possibile “terza guerra mondiale”. Nella sua dichiarazione di guerra un Putin fermo e impassibile ha pronunciato parole chiare: chi cercherà di ostacolare l’azione di Mosca o portare minacce allo Stato e al popolo russo subirà conseguenze “mai sperimentate nella sua storia”. Il riferimento all’arma nucleare, peraltro ribadito in altre circostanze, è fin troppo esplicito e dimostra un’inquietante risolutezza.
Carolina De Stefano, ricercatrice dell’EHESS di Parigi e professore aggiunto di Storia e Politica Russa alla Luiss di Roma, ricostruisce il retroterra del conflitto. «Putin ha deciso personalmente l’invasione dell’Ucraina – spiega – chiuso nel suo “dorato” isolamento, circondato dalla sua “corte” prona e opportunista. Il presidente ha sempre ritenuto che i vicini ucraini rientrassero nella sfera di influenza russa e fin dagli anni Novanta, di fatto, la Russia ha controllato l’Ucraina, offrendole gas a un prezzo assai vantaggioso in cambio di una totale fedeltà politica. Nel 2004, con la cosiddetta “rivoluzione arancione”, si verificò una prima rottura in questo schema: imponenti manifestazioni popolari portarono al potere un governo filoccidentale, durato pochi anni ma capace di dimostrare a Putin l’indocilità dell’Ucraina. Nel 2014 la crisi si ripresentò su scala più ampia: il presidente filorusso Janukovic fu abbattuto da quello che Putin ritenne a tutti gli effetti un colpo di Stato diretto dall’Occidente, le etnie russofone nell’est del Paese e i filorussi in genere si ribellarono, e la Russia ne approfittò per invadere la Crimea con i cosiddetti “omini verdi”, militari senza insegne che realizzarono l’annessione della Regione, sancita da un referendum popolare mai riconosciuto dalla comunità internazionale. Contemporaneamente truppe russe si infiltrarono nel Donbass, il territorio attraversato dal fiume Donec e diviso tra i distretti di Donetsk e Luhansk, assistendo i ribelli separatisti in lotta contro le forze di sicurezza ucraine».
Da allora scontri continui hanno mantenuto alta la tensione, fino alle esercitazioni lungo il confine ucraino da parte dell’esercito russo, negli scorsi mesi, e alla presunta richiesta d’intervento da parte del Donbass.
«In Crimea la prevalenza etnica russa è un dato di fatto – precisa Carolina De Stefano -, ma in Donbass lo scenario è diverso. Una questione etnica esiste, come esiste un’ampia comunità russofona che però ha a lungo vissuto in armonia con l’etnia ucraina. La situazione è cambiata da quando la Russia ha cominciato ad essere più aggressiva e ha usato i russi del Donbass come testa di ponte nel territorio ucraino. In effetti, la protezione delle comunità russe di confine, in Donbass come altrove, è stata spesso strumentalizzata da Mosca, che però non ha mai elaborato piani di protezione concreti. Dal 2014 c’è stata un’escalation del nazionalismo ucraino, per ragioni geopolitiche in risposta all’invadenza russa, ossia fondamentalmente per una necessità di “distinguersi”. Si sono verificate discriminazioni nei confronti della popolazione russa, ma niente di paragonabile al genocidio lamentato da Putin».
Nel 2014 e poi nel 2015, a margine della prima crisi del Donbass, Russia e Ucraina stipularono i cosiddetti “protocolli di Minsk”, che prevedevano il ritiro degli infiltrati russi nella Regione in cambio di una forma di autonomia territoriale. E, tuttavia, problemi interpretativi (l’Ucraina chiedeva un ritiro preliminare delle truppe russe) hanno sempre impedito l’attuazione dei protocolli.
«Mosca mirava ad una ristrutturazione in senso federale dell’Ucraina – dice la dottoressa De Stefano – e all’insediamento di un governo filorusso in Donbass, che potesse esercitare una forte influenza sull’intera federazione ucraina. Oggi, data la dimensione e la crudeltà delle operazioni militari, col carico di distruzione e sbandamento imposto alla popolazione, le mire di Putin sembrano cambiate. La Russia vuole consolidare il suo dominio sulla Crimea, assumere il controllo del Donbass e probabilmente di tutta la fascia costiera sul Mar Nero. Vuole assicurarsi un controllo duraturo sul governo di Kiev o magari lasciarlo al suo destino dopo aver costruito uno “Stato cuscinetto” nell’Ucraina orientale. Vuole forse riportare la Russia a una dimensione sovietica, restituendole almeno in parte la vecchia influenza sull’Europa dell’est. Solo il tempo potrà fornirci una risposta precisa su questo punto. In ogni caso la guerra produrrà (e in parte lo ha già fatto) un’instabilità permanente in Russia. Il governo potrebbe assumere un carattere ancora più autocratico e militarista, e non si possono escludere spinte di ribellione contro un Putin che dovrà, presto o tardi, porsi il problema della successione».
Le ripercussioni del conflitto sono già evidenti anche per la NATO e l’Unione Europea. «L’Organizzazione del Patto Atlantico – sostiene la dottoressa De Stefano – è chiamata “al fronte”. La richiesta di sicurezza, specie da parte dei Paesi confinanti con la Russia, è cresciuta, così come il dispiegamento delle forze NATO nei loro territori. L’Unione Europea, d’altra parte, sta già cambiando pelle: ha approvato per la prima volta, compattamente, sanzioni economiche contro un Paese aggressore e per la prima volta ha deciso di inviare armi a un Paese aggredito. Con la Russia di nuovo “nemica”, il suo carattere identitario finirà per rafforzarsi nel nome della libertà, del diritto e della democrazia. Considerare l’Ucraina martire un candidato all’ingresso nell’Unione è un messaggio forte e preciso, benché non privo di elementi contraddittori. Lo stato di necessità del Paese può giustificare uno snellimento della procedura di ammissione all’Unione? Di certo è il momento di serrare i ranghi: il problema di una difesa comune europea e di un coordinamento operativo tra UE e NATO diventa prioritario».
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